di SERGIO BIANCHINI – La cosa strana, ma ormai abituale, è che gli acuti analisti del disastro scolastico italiano, non nominino mai il ministero e l’enorme struttura organizzativa del sistema scolastico italiano.
Lo stesso errore fece Don Milani quando scrisse la sua “Lettera a una professoressa” nella quale lanciava anatemi alle insegnanti accusate di non realizzare la scuola della costituzione. Anche lui non disse nulla sul ministero e al ministero non chiese nulla. Eppure i ministri erano democristiani come lui, probabilmente anche suoi ammiratori visto che il sinistrismo democristiano ha sempre comandato la scuola.
Si, ha sempre comandato rinunciando a comandare. E questa a me sembra la vera contraddizione permanente della scuola italiana. Il minstero non esercita alcun ruolo di guida del sistema scolastico e lascia agli insegnanti e ai presidi la libertà apparente di decidere il funzionamento della scuola.
In questa fatale dimenticanza si allinea anche l’ottimo, come analista, Galli della Loggia che svolge, nel suo articolo del 21 giugno sul Corsera, una lucida analisi delle contraddizioni laceranti della scuola e della sostituzione del moralismo a buon mercato al posto dell’istruzione, del sapere.
Sulle prove d’esame della maturità dice: “che cos’altro facevano le tracce date l’altro giorno se non invitare obbligatoriamente a fare proprio con la necessaria compunzione questo orizzonte di «buona educazione»? A che cos’altro potevano mirare se non a sentir tessere l’ovvio elogio di ogni sano sentimento nella figura del generale dalla Chiesa, di Gino Bartali, della lotta contro la mafia, nella difesa del nostro patrimonio artistico, nella deprecazione dei biechi totalitarismi del Novecento? O qualcuno al Miur pensava davvero che potesse esserci uno studente kamikaze voglioso di mettersi a polemizzare, chessò, sul 41 bis o sul reato di associazione mafiosa? …….Ed ecco infine giovedì, inevitabile ciliegina sulla torta a conferma di quanto sto dicendo, il tema su don Milani al liceo di Scienze sociali. Assente giustificato, come si vede, solo Garibaldi”.
Prosegue dicendo: “Ma perché, mi chiedo, la scuola italiana ha deciso — sia pure con le migliori intenzioni: che peraltro è noto quali vie servano a lastricare — perché ha deciso diventare una scuola di conformismo?”
E la risposta, conclude disperatamente: “Perché invece di chiedere agli studenti, nel momento conclusivo della loro carriera scolastica, di servirsi di quanto hanno imparato negli anni precedenti per organizzare un loro autonomo, personale, ragionare su qualcosa, per esprimere un qualche argomentato giudizio su uomini e vicende del mondo, perché invece di tutto ciò essa decide di chiedere loro solo grigi imparaticci, frasi fatte, rancidi rimasticature di già detto? Perché insomma la scuola italiana ha paura della libertà e insegna che è meglio farne a meno?”.
No! La scuola italiana non ha paura della libertà. Ha paura di essere sottomessa ai naturali vincoli organizzativi e gestionali che consentano, o meglio che costringano il sistema scolastico a svolgere i compiti per i quali è costituito e che costantemente da ormai 40 anni ignora.
Questo richiederebbe di attuare anche in Italia ciò che è normale in tutta Europa e cioè il tempo pieno per gli insegnanti, la scelta degli stessi in base a criteri di merito e non di assistenza sociale, la definizione di percorsi scolastici adeguati a tutte le tipologie e le prospettive della gioventù reale di oggi, alla ricostituzione di una gerarchia dirigenziale che dal ministero al singolo preside sia in grado di verificare e orientare l’adeguatezza della gestione quotidiana degli istituti scolastici.
La scuola è abbandonata a se stessa dalla viltà della direzione ministeriale e politica. Arranca sotto i colpi delle ormai casuali vicende e tensioni relazionali interne e dei commenti faziosi dei media.
Nessun ministero di parte può rimediare a questa situazione perché subito gli oppositori si schierano a difendere le ipertrofiche autonomia e la libertà di insegnamento cioè i naturali antagonisti di ogni procedura ministeriale e che oggi sono assolutamente e proprio per ciò tragicamente dominanti. Infatti sia l’autonomia che la libertà hanno senso nell’ambito di una forte azione centrale del ministero, ovviamente sapiente e calibrata nella giusta maniera e quindi supportata da un grande consenso culturale ed anche politico.
Proprio questa necessità di rimettere in piedi un buon governo centrale della scuola e contemporaneamente spazi reali ma ben definiti di autonomia e di libertà è la grande incompresa del momento attuale. Per cui di nuovo ci si divide vanamente tra sostenitori del liberismo o del centralismo e così la stanchezza per le interminabili discussioni è l’unica ad avere il sopravvento.
Ecco l’artico integrale di GdL
A parole, l’obiettivo dell’istituzione scolastica è l’istruzione. Nei fatti, le tracce del tema di maturità provano il contrario
Le tracce per la prima prova scritta all’esame di maturità — la composizione d’italiano a tema libero — sono uno specchio fedele (e del resto avrebbe mai potuto esser diversamente?) dello spirito che non da oggi domina la scuola italiana. Dirò meglio: dell’obiettivo principale che essa si prefigge e quindi dell’ideologia che la nutre.
A parole l’obiettivo dell’istituzione scolastica è naturalmente l’istruzione. Vale a dire accrescere «il sapere», e per questa via favorire l’autonomia di giudizio degli studenti (chiedo scusa: «delle studentesse e degli studenti», per obbedire al canone della correttezza linguistica dei documenti del Miur), e così dunque sviluppare il loro spirito critico.
Nelle intenzioni e nei fatti, invece, l’obiettivo vero della scuola — proclamato in ogni suo documento ufficiale — è un altro: è l’«educazione». È l’obiettivo cioè che consiste nel fare di ogni allievo innanzi tutto un buon cittadino, una persona devota ai principi e agli ideali della Costituzione, formata alle regole del civismo democratico, pronta ai doveri di ogni socialità benevola e solidale. Infatti che cos’altro facevano le tracce date l’altro giorno se non invitare obbligatoriamente a fare proprio con la necessaria compunzione questo orizzonte di «buona educazione»? A che cos’altro potevano mirare se non a sentir tessere l’ovvio elogio di ogni sano sentimento nella figura del generale dalla Chiesa, di Gino Bartali, della lotta contro la mafia, nella difesa del nostro patrimonio artistico, nella deprecazione dei biechi totalitarismi del Novecento? O qualcuno al Miur pensava davvero che potesse esserci uno studente kamikaze voglioso di mettersi a polemizzare, chessò, sul 41 bis o sul reato di associazione mafiosa? O magari che potesse presentarsi, vedi mai, una studentessa emula di Giovanna d’Arco disposta a sostenere che Gino Bartali salvò sì decine di ebrei dallo sterminio ma perché mosso dalla torbida ambizione di essere ricordato un giorno nel Giardino dei Giusti? Ed ecco infine giovedì, inevitabile ciliegina sulla torta a conferma di quanto sto dicendo, il tema su don Milani al liceo di Scienze sociali. Assente giustificato, come si vede, solo Garibaldi.
Ma perché, mi chiedo, la scuola italiana ha deciso — sia pure con le migliori intenzioni: che peraltro è noto quali vie servano a lastricare — perché ha deciso di diventare una scuola di conformismo? Perché invece di chiedere agli studenti, nel momento conclusivo della loro carriera scolastica, di servirsi di quanto hanno imparato negli anni precedenti per organizzare un loro autonomo, personale, ragionare su qualcosa, per esprimere un qualche argomentato giudizio su uomini e vicende del mondo, perché invece di tutto ciò essa decide di chiedere loro solo grigi imparaticci, frasi fatte, rancidi rimasticature di già detto? Perché insomma la scuola italiana ha paura della libertà e insegna che è meglio farne a meno?