di NICOLA BUSIN – Sempre più Veneti, di antica e nuova origine, si stanno chiedendo la ragione di questo amore di Confindustria Veneta verso il governo romano. Possiamo anche lasciar perdere le questioni storiche, culturali, identitarie ma non certamente le questioni economiche. Va da sé che per un imprenditore l’aspetto economico sia fondamentale per la sopravvivenza e lo sviluppo della propria azienda. In particolare l’aspetto fiscale rappresenta sicuramente una questione vitale, come dire più tasse sei costretto a pagare e meno competitivo sei sul mercato globale, perché il mercato interno rappresenta ormai una modesta parte delle vendite complessive.
Da una recentissima analisi di Unioncamere su dati Istat del 2015/16 la terza provincia che più esporta è Vicenza, dopo Milano e Torino. Da considerare che la provincia di Milano conta circa 3,2 milioni di abitanti, Torino 2,3 milioni e Vicenza solo 870 mila. Il valore esportato da Milano è di circa 35 miliardi che diviso per gli abitanti fa 11 mila euro circa pro capite, per Torino il risultato è di 9 mila e cento e per Vicenza 19 mila e cinquecento euro a testa, praticamente il doppio di Milano o Torino. Per il Veneto le esportazioni nel 2015 sono state di circa 58 miliardi con un bilancio positivo export/import di 15,6 miliardi. Per la Lombardia il bilancio è negativo per 4,2 miliardi con la provincia di Milano sotto di 24 miliardi nonostante il segno positivo di Brescia e Bergamo per circa 13 miliardi. Il Veneto e le ex province della Serenissima Repubblica Brescia e Bergamo con un attivo commerciale di 28 miliardi ed un export di 86 miliardi di euro rappresentano il segno tangibile di una sconfinata cultura del lavoro che ha radici profonde. È fin troppo semplice capire cosa potrebbero fare questi territori liberi da uno stato inefficiente che continua a prelevare enormi ricchezze per mantenere un parassitismo che non ha pari al mondo.
Esisteva un tempo in cui i “Nobil Homini” dotati di proprie ricchezze si mettevano a capo delle istituzioni per farle ben funzionare, per permettere che anche il popolo potesse vivere con maggiore benessere. Ora quei tempi sono passati ed i Veneti si ritrovano una classe imprenditoriale infarcita di una cultura nazionalista che va contro i propri interessi, che va contro tutto il popolo dei lavoratori che ha permesso il grande sviluppo produttivo di queste terre, lavoratori seri e preparati, instancabili e sempre disponibili. Perché se vale la diffusa intraprendenza e imprenditorialità vale in pari modo l’aver trovato persone disponibili ad impegnarsi con professionalità e dedizione nelle responsabilità lavorative loro assegnate.
Questo chiedono i Veneti, poter decidere il loro futuro che non è quello italiano. Un futuro che è un ritorno al passato con la capacità di autogoverno descritta da una storia e da una cultura millenaria che non devono essere cancellate o omologate. Una storia che nei libri italiani elenca tutti gli imperatori romani e dimentica i 120 Dogi della Repubblica Veneziana che per 1.100 anni ha governato con saggezza, una storia che trasforma in italiani grandi personaggi come Marco Polo, Palladio, Tiziano, Tiepolo, Canova e tantissimi altri che non videro mai il regno sabaudo.
Il 20 giugno 1866 Vittorio Emanuele II dichiarò guerra a Francesco Giuseppe reo di aver “…contribuito a tenere divisa e oppressa l’Italia e schiava una delle più nobili nostre province (la Venezia)”. In verità la vera schiavitù del popolo Veneto iniziò proprio in quell’anno, dopo un plebiscito truffa svolto il 22 ottobre a voto palese e con l’esercito dei Savoia già presente nei territori dato che il 19 ottobre era già entrato in Veneto. Dal 1867 ai primi del ‘900 quasi una metà dei Veneti lasciò a malincuore le proprie terre perché oberata da folli tassazioni come la tassa sul macinato. E ancora le terre insanguinate dalla prima guerra mondiale anche questa voluta dai Savoia, non certo dalle popolazioni locali che più di altre soffrirono questo assurdo conflitto. I Savoia che qualcuno definì più che una casata reale una caserma reale, guerrafondai sanguinari ma forse erano i tempi anche se i dubbi sono atroci. L’impero Austro-Ungarico in realtà cercò di creare infrastruttura con nuove strade, ferrovie, ospedali e scuole. In particolare rese obbligatoria la frequenza delle scuole elementari anche se la dispersione era sensibile: nel 1856 nel Veneto esistevano 2.517 scuole elementari con più di 100 mila alunni (R. Repole, la scuola elementare nel Lombardo veneto – 1977 – Storiadentro). Con il regno d’Italia la situazione peggiorò dato che con il censimento del 1871 si attestò un notevole peggioramento dell’analfabetismo rispetto alla situazione pre-unitaria.
Ciò che più stride di Confindustria Veneta ed in particolare di Vicenza e Verona è leggere sui giornali di cui è proprietaria (gruppo Athesis), quali l’Arena di Verona e il Giornale di Vicenza ed altri, di quale retorica di stato unitario siano capaci, quasi una retorica risorgimentale fuori dai tempi, segno di un decadimento culturale inspiegabile. Simboliche le pagine dedicate alla ricorrenza dei 150 anni dell’annessione delle terre Venete al regno sabaudo, il 21 ottobre 2016, praticamente un inno all’unità senza evidenziare i disastri che ha portato alle popolazioni Venete, un abbraccio mortale che solo dopo il 1945 ha visto una rinascita economica e culturale di un popolo. Rinascita avvenuta non grazie a Roma ma nonostante Roma, rinascita che ora è passata con il grande rischio di un progressivo decadimento economico. Anzi il declino è già in atto soprattutto a livello artigianale e della PMI per uno spropositato prelievo fiscale che rende sempre più scarsamente competitive le nostre aziende che devono confrontarsi con il mercato globale.
I nostri industriali, liberi da questa obsoleta retorica nazionalista, dovrebbero per primi “Nobil Homini” chiedere il referendum di autodeterminazione del popolo a cui appartengono, fieri della loro storia e cultura che non è quella italiana ma è quella veneta, un’altra cosa. Industriali fieri di avere come riferimento un civiltà millenaria che è stata faro e può ancora esserlo per l’intera umanità, un modello culturale, sociale economico di eccellenza che non deve entrare in crisi per colpe non proprie. Lo devono fare per rispetto di tutti i Veneti che hanno loro permesso di crescere e diventare ricchi e potenti nel mondo. Senza queste genti, di nuova o antica origine, senza questo territorio, senza questa cultura del lavoro e del rispetto questo grande sviluppo non sarebbe avvenuto. Non nel segno della chiusura agli altri, la storia ci racconta cose ben diverse, ma capaci di autogoverno, di esprimere pienamente le proprie potenzialità ed evitare che ancora una volta troppi Veneti siano costretti a lasciare a malincuore le proprie terre, non per propria incapacità ma per la voracità di uno stato miope e l’ignavia di chi potrebbe facilmente cambiare il corso della storia.
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