di ALBERTO LEMBO
In una comunità internazionale formata da Stati sovrani che si sono reciprocamente riconosciuti per tali la secessione da un soggetto preesistente rappresenta la sola possibilità offerta ad un popolo per costituirsi in Stato sovrano, salvo il caso di smembramenti dovuti alle più varie vicende o al venir meno di vincoli unificanti? Quale via appare accettabile in dottrina e praticabile nei fatti, anche a livello internazionale, per l’attuazione del teorico principio, più volte richiamato in vari testi, dell’ autodeterminazione dei popoli?
Proviamo a rispondere a queste domande su un piano che escluda l’uso di metodi violenti, anche se questi si sono rivelati, in alcuni contesti geopolitici culturalmente piuttosto lontani da noi, l’unica via praticabile con successo.
Si ritiene in dottrina che quando uno Stato violi diritti individuali o collettivi propri di un particolare “gruppo etnico” o, comunque, di una popolazione individuabile anche territorialmente possa scattare come autotutela la richiesta di autodeterminazione per ottenere o una sostanziale modifica delle istituzioni statali vigenti, restando all’interno, o una soluzione “esterna” consistente nella secessione.
Le modifiche “interne” possono riguardare una maggiore autonomia amministrativa o l’instaurazione di una struttura federale dello Stato. La soluzione “esterna” può consistere nella creazione di uno Stato indipendente oppure nella adesione ad una confederazione di altri soggetti sovrani oppure nell’annessione ad un altro Stato sovrano. Tutte queste soluzioni possono concretizzare il diritto all’autodeterminazione passando attraverso una plebiscitaria espressione della maggioranza della popolazione interessata e, successivamente, un atto di valore internazionale che sancisca il trasferimento della sovranità.
La premessa, come detto, è una lesione effettiva di diritti individuali o collettivi a livello territoriale che riguardi una popolazione sufficientemente numerosa e dotata di risorse proprie, anche territoriali, tali da assicurare la possibilità di sopravvivenza del nuovo soggetto nel contesto internazionale, particolarmente se resti indipendente e isolato. Questa limitazione si collega in positivo con il principio che ogni popolo ha il diritto di disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali, di cui non può essere spogliato da altri soggetti.
Notiamo che autodeterminazione significa rivendicazione di sovranità e non presuppone automaticamente una separazione totale dallo Stato considerato oppressore o limitatore dei diritti del “gruppo etnico”, perchè sovranità vi è anche nei soggetti facenti parte di uno Stato federale o, meglio ancora, tra le componenti di una Confederazione di Stati.
La soluzione federale “interna”, che è strettamente collegata al concetto di autonomia, è raccomandabile particolarmente nel caso di realtà non particolarmente ampie, come lo è pure la soluzione “esterna” di tipo confederale.
Per questi motivi il diritto teorico all’autodeterminazione non può e non deve essere considerato come una minaccia all’ordine internazionale e alla integrità territoriale degli Stati, perché può portare anche alla soluzione del problema con la costituzione di realtà territoriali anche più ampie e più equilibrate.
Riconoscere in dottrina il principio del diritto all’autodeterminazione significa anche garantire attraverso misure concrete l’esistenza di ogni singolo popolo quando questo sia una realtà maggioritaria nel territorio dove vive, dove parla la propria lingua, dove sviluppa la sua cultura e coltiva le sue tradizioni e le sue forme di vita associativa, conferendogli una identità degna di tutela. Ogni misura volta a privare un popolo delle sue specifiche caratteristiche è incompatibile con il principio di autodeterminazione. La conservazione dell’esistenza di un popolo è senza dubbio in contrasto con i princìpi di sovranità statale e di integrità territoriale degli Stati, ma questi devono rispettare le condizioni fondamentali su cui può basarsi la richiesta di autodeterminazione.
In conclusione, i molti problemi teorici e pratici che il diritto di autodeterminazione ha causato in varie occasioni negli scorsi decenni sono scaturiti non da una cattiva o ambigua applicazione dello stesso ma dalla sua negazione, quando gli Stati si sono rifiutati di riconoscere l’esistenza di legittime istanze avanzate da minoranze etnico-territoriali e le hanno combattute, prescindendo dalle motivazioni che le avevano provocate.
L’uso corretto del diritto di autodeterminazione nel rispetto dei princìpi della Carta delle Nazioni Unite non mette in pericolo le relazioni internazionali o l’esistenza degli Stati. E’ vero che non è codificato un “principio federale” all’autodeterminazione, ma certamente un reale federalismo, che può significare sia autonomia sia sovranità, come detto, può rappresentare una delle possibili forme di esercizio di questo diritto. Visto in prospettiva può addirittura rappresentare una tappa in un processo che può condurre ad assetti più stabili e, in qualche caso, ad unità territorialmente più ampie e più libere nelle loro componenti interne. Questa potrebbe diventare la via pacifica per un futuro concreto del principio di autodeterminazione.
Ora si tratta di attivarsi concretamente e seriamente. Una via percorribile era stata individuata da tempo da Gianfranco Miglio…