di RICCARDO POZZI – Quando la Lega esplose, nei primi anni novanta, fu una novità inimmaginabile, la prima vera reazione di un territorio chE aveva solo imparato a lavorare a testa bassa e tacere. Appena alzava la testa veniva tacciato di razzismo. E poi chissà perché. Non esiste una razza meridionale e una settentrionale, esistono le persone con i loro comportamenti, il resto è solo sociologia da bar sport. La proposta della Lega per la riforma federale era l’offerta politica più importante e seria dal dopoguerra. Una mattina mi alzai e vidi, sul traliccio di 90 metri che attraversa il Po con l’alta tensione, una bandiera della Padania sistemata certamente da qualcuno del mestiere. Un’euforia che passò presto.
La Lega di Bossi iniziò da subito a causarmi malessere, questo continuo ammiccamento al machismo e alla presunta diversità politica ricordavano fastidiosamente un già visto politico.
Poi arrivarono le prime trappole, la maxitangente Enimont, i primi coinvolgimenti con i Sama del momento. Niente di strano, s’intende. Il potere sa come renderti ricattabile.
Sul piano politico, poi, tutte quelle sagre per accontentare la base meno sofisticata e il vizio tutto alto lombardo di spararla sempre un po’ grossa.
Il folclore identitario, i Kilt, le ampolle, i riti laici e un antimeridionalismo sciocco e ottuso, che faceva leva su una presunta diversità etnica. Questo offrì su un piatto d’argento la testa del movimento per chi era preposto a screditarlo e a sottolinearne la pericolosità sociale.
Bossi fece molti errori e allontanò troppa gente per farla sembrare una difesa politica della propria creatura. Erano più simili a epurazioni scatenate dalla gelosia, come quella nei confronti del prof. Miglio.
Sono passati alcuni anni e improvvisamente ci ritroviamo una lega che passa dal problema di un antimeridionalismo inutile e controproducente, a un appassionato meridionalismo prono e miope.
Non c’era una via di mezzo?
E poi la svolta nazionalsalvinista, con il ritorno in pompa magna di tutta le retorica della nazione e delle bandierine, degli italiani prima degli altri, e via straparlando.
Via le padanie, via i soli delle alpi, tengono solo un piccolissimo e sperduto Albertino da Giussano sulle loro giacche, il cui significato, con tutta la buona volontà esegetica, appare quantomeno fuori luogo. Io non odio il sud, lo visito e lo apprezzo, vorrei solo che non mi frugasse nelle tasche con così tanta disinvoltura.
Ma chi ha dato a Salvini il mandato di rottamare il partito più vecchio del parlamento e farlo diventare un contenitore di destra che parla solo di barconi, castrazione, porto d’armi?
Chi credeva in un’Italia federalista no. Nessuno lo ha autorizzato a buttare un sogno, anche se sarebbe significato restare a pochi punti percentuale. Magari, pochi, maledetti ma coerenti.
E a pensarci bene, un po’ di coerenza potrebbe far bene anche a questa strana lega destro-nazionalista. Lasci il povero Albertino da Giussano sul comodino, abbandoni il nome “Lega” che non ha alcun significato per la nuova direzione politica, e poi indossi pure tutte le magliette del mondo. Con la felpa o con la lagna, basta che se magna.