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Comici “di Stato”. Benigni, Litizzetto, Guzzanti. Lutto stretto dopo la vittoria di Trump

BENIGNI TRICOLORE

di ROMANO BRACALINI – Dopo l’ultima cena alla Casa Bianca, Benigni non ha più voglia di saltare. Era la sua specialità per vezzeggiare i potenti, da Berlinguer a Veltroni; da ultimo diventato l’ombra di Renzi, lo ha seguito negli States a spese dell’erario. Anche la Littizzetto, faccia scorrevole nel nulla, è apparsa ingrugnita dopo la vittoria di Trump come la vasta legione dei comici di Stato in lutto stretto dopo la sconfitta di Hillary, l’eterna perdente. Affranta la Sabina Guzzanti, guittarella de borgata, che nell’era Berlusconi lamentò di essere stata “epurata”, con qualche ostentazione di orgoglio e qualche inesattezza semantica.

Benigni qualche anno fa girò il film “La tigre e la neve” con l’ambizione di commuovere con qualche gaiezza leggiadra nella tragedia. Trattava della guerra in Irak (film girato con più agio e meno pericoli in Tunisia), con qualche compiaciuta tenerezza per i soldati americani. Ma avvertiva che non lo aveva fatto con intento “buonista” e che rifiutava ogni “etichetta ideologica”. Quando mai! Vi risulta che abbia mai rischiato la censura?

Gli attori sono sempre stati la categoria più docile e ligia alle direttive d’ogni regime. Benigni c’è sempre riuscito senza sforzo. Gli sarebbe stato impossibile osare il contrario.

Bismark, che non era nemmeno premio Nobel come Fo, aveva già denunciato la propensione degli italiani, comici o pennivendoli, a darsi con trasporto al potente di turno, ”a chi comanna”, come si dice a Roma, col cinismo di sopravvivenza del popolino. Se sei alla greppia dello Stato, quando la fai la satira vera? Quando la giri un’altra “Corazzata Potonkin” alla vaccinara se il ministero dei Beni Culturali ti chiude i rubinetti? Durante il fascismo si rideva di Starace, anche i gerarchi, e c’era un solo comico, tale Cecchelin, disposto a farsi una notte in galera dopo aver ripetuto la solita battuta: ”Che differenza c’è tra la miseria e il principe Umberto? Il principe è colonnello, la miseria è generale”. Regolarmente scattavano le manette.

Nel film “La vita è bella” Benigni, comico di corte, appariva nella livrea di cameriere e c’era parso l’inconscio riflesso del ruolo, perché a volte l’abito fa il monaco; e i toscani spesso sono più monaci di tutti perché amano l’invettiva, purché permessa dalla questura, ma poi sono i primi a corteggiare i tiranni, (nel Ventennio tutti fascisti, dopo il ’43 tutti comunisti).

Gustavo Modena, attore drammatico repubblicano, viveva in esilio a Torino. Nel 1858 venne richiesto per una recita in onore dell’arciduca Massimiliano d’Asburgo in visita a Milano. L’impresario Ramaglia gli assicurò l’indulto imperiale e un congruo compenso se avesse recitato al teatro di Santa Redegonda. Gustavo Modena rispose: ”No! Meglio la fame che gli applausi dell’arciduca”. Ve li immaginate Pinocchio Benigni, la Littizzetto e la Guzzanti allo Spielberg per reiterata disobbedienza? Portaborse si nasce, e gli italiani, in livrea o no, come diceva Totò, lo “nacquero”.

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