di Stefania Piazzo – Stato: c’è chi dice, acutamente, che sia anche un participio passato, che la sua immutabilità nella grammatica costituzionale garantisca la permanenza delle stesse regole del gioco. Questa immagine di potere lessicale, riannoda i fili del discorso pre e post referendum per le autonomie. Persino su un settimanale nazionalpopolare distribuito dalle edicole alle parrocchie e all’interno delle nostre Chiese, il primo presidente della Regione Lombardia, Pietro Bassetti, disse: «È sbagliato non comprendere che questo Stato è vecchio perché immutabile, portatore di costi e inefficienze. I settentrionali non credono nella ricostruibilità di questo Stato». Al Nord intanto l’economia industriale è divenuta anche economia della conoscenza, e non si è convinti che la propria vita la debba fare e decidere lo Stato.
I DECRETI STAMMATI
Almeno questo Stato così organizzato, che trascina dietro sè il peccato originale di una finanza che dagli anni ’70 in poi ha segnato i peggiori delitti a danno del territorio. Doveva essere l’era delle Regioni, invece… Ricordate? Tolsero prima ai Comuni la leva fiscale: via la tassa di famiglia, via l’imposta generale sulle entrate… Per gli enti locali scattò la corsa al mutuo, i più virtuosi riuscirono a contenere le spese ma non andò così per tutti gli altri. Morale? Si pensò bene di sostituire i tributi soppressi con i trasferimenti statali. Tra ’76 e ’77, con i decreti Stammati, i debiti comunali vennero “ripuliti” e posti a carico dello Stato, che s’impegnava a finanziare la differenza tra la spesa riconosciuta, definita “storica”, e il gettito delle entrate dei bilanci comunali. In base alla spesa storica dichiarata dagli enti locali, lo Stato trasferiva i nostri soldi! Passò poi persino il principio per cui lo Stato pagava e basta, senza entrare nel merito del governo della spesa.
Insomma, nessun principio di perequazione fiscale né di responsabilità della spesa: «Se io non pago le tasse, ci pensa poi lo Stato». Certo, continuando a pescare dalle regioni più virtuose. Sono gli anni in cui la spesa pubblica cresce senza freno, alimentando l’assistenzialismo. L’egoismo centralista ha fatto riesplodere la questione settentrionale, l’insofferenza di una popolazione sottomessa ad un sistema da Terzo Mondo fiscale. Dove altri, anni luce distanti e diversi, decidono, giudicano, educano, amministrano per noi. Hanno analizzato la rivolta del Nord stupiti e preoccupati i vari sociologi del giornalismo italiano, come se non voler restare coglioni a vita fosse proibito ai cittadini solo perché padani. Ancora oggi alzarsi e chiedere una democrazia in cui si può decidere a casa propria, è considerata una deriva totalitaria per lo Stato dell’ideologia della spesa.
DUE LATITUDINI, DUE STATI
Ma la storia fa il suo corso. Verso presente e futuro l’Italia ha atteggiamenti diversi nelle sue diverse latitudini regionali. È un dato di natura, è un’eredità culturale che affonda le proprie radici nella libertà comunale, prototipo di autonomia fiscale, legislativa, di difesa delle regole economiche, del commercio, degli scambi, delle arti, dei mestieri, delle invenzioni, delle università. Tutto viene da lì, dall’uomo moderno che si smarca dalle grandi contrapposizioni di potere, che difende la propria identità territoriale e religiosa. È, guarda caso, l’uomo libero nato in queste terre, da quella prima questione settentrionale, dalla riscossa di chi chiedeva di versare meno tasse al tiranno e di essere padrone a casa propria, liberando le energie del progresso.
La storia si ripete. La questione settentrionale resta aperta. Fu persino l’Osservatore romano, a firma dello storico Giorgio Rumi, non a caso cattolico ambrosiano, figlio di queste terre, a scrivere nel giugno del ’91 della persistenza della questione settentrionale, interpellando le istituzioni ad affrontarla. Diceva lo storico a la Padania, l’indomani delle cosiddette elezioni padane: «Ma lo si vuol capire o no che l’Italia non può essere considerata una camicia di forza (…). Tutto va bene, a patto che la risposta alla questione del Nord sia politica (…). Basta che si diano una mossa».
IL NORD E’ UNA LEGGENDA
Ancora oggi diversi accademici e segretari di partito credono che il Nord sia una leggenda, che non sia diverso dal resto del Paese. Eppure i voti dicono che le regioni centro-meridionali premiano in consensi il rendimento dell’intervento pubblico sia dove funziona (nelle regioni rosse ora anche leghiste) che dove non funziona (nel meridione). È il culto della spesa storica. Ma dove sono forti le richieste di autonomia, di non-assistenza, è chiesta invece una spinta di forte modernizzazione. È una diversa qualità del consenso, che ha un diverso peso politico specifico. Bisogna tenerne conto.
Da Stammati alle stimmate del Nord: i costi dello Stato nascono da qui.
Sotto, alcuni brani sul debito dal servizio di Enrico Marro dal Sole24 Ore.
Il nostro Paese arriva al 1982 in condizioni sudamericane: l’inflazione viaggia intorno al 17% divorando il potere d’acquisto di stipendi, risparmi e pensioni, i tassi d’interesse all’inizio dell’anno superano il 25%, lo spread tra i decennali italiani e quelli della Repubblica federale tedesca tocca l’inimmaginabile record di 1175 punti base. Una vetta mai più raggiunta nemmeno durante Tangentopoli e la crisi della lira (769 punti base), o nella crisi del debito sovrano del 2011 che costò il posto a Berlusconi e spianò la strada a Monti (574 punti base).
Gli avvertimenti di Ciampi
Proprio nell’anno in cui gli azzurri alzano al cielo la Coppa del Mondo a Madrid, Banca d’Italia mette in guarda i Governi dall’usare l’arma della spesa pubblica con eccessiva disinvoltura, rischiando di creare quel colossale debito che poi si è materializzato e che da trent’anni ci pende, affilatissimo, sul collo, rubandoci il futuro. «Nel biennio 1981-82 il prodotto interno lordo è rimasto stazionario – scrive il Governatore Ciampi – ma il settore pubblico ha aumentato del 14% il suo debito in termini reali, mentre il debito del Paese verso l’estero è aumentato di 9 miliardi di dollari». Il disavanzo delle amministrazioni pubbliche italiane nel quinquennio 1977-82 ha superato il 10% del Pil, notava preoccupata Bankitalia, contro l’1% degli Stati Uniti.
Cordoni della spesa allargati
Su spesa pubblica, deficit e debito bisogna correggere la rotta, sottolinea Ciampi: «La correzione deve affrontare il problema della spesa, modificandone l’angolo di rotta. I progressi nel campo della funzione sociale potranno essere salvaguardati e resi duraturi solo se saranno posti in una vera cornice di giustizia distributiva, di stabilità monetaria, di efficienza». Ma la realtà è un’altra: nell’Italia del 1982 vengono allegramente «introdotti sistemi di intervento pubblico che comportano nel presente, e ancor più nel futuro, spese incompatibili con le più ottimistiche previsioni di crescita – conclude amaramente il futuro presidente della Repubblica – promettendo la distribuzione di un reddito non prodotto e non producibile in tempi brevi».
L’esplosione del debito: 1983-1990
Le parole di Ciampi cadono nel vuoto. I Governi italiani che si succedono negli anni Ottanta continuano a mantenere saldi primari negativi al limite dell’indecenza (si sfiora il 15%), sorvolando allegramente sulla disciplina di bilancio. È in questi anni che il debito decolla, anche perché con un’inflazione che non scende sotto il 10% fino al 1985, per trovare acquirenti di BoT e BTp il tasso medio dei nostri titoli di Stato resta sempre a doppia cifra. Il mostro del debito diventa spaventoso: nel 1980 era appena sotto il 60%, ma dieci anni dopo è già volato al 100% del Pil.
E pensare che quello degli anni Ottanta è un periodo di crescita economica apprezzabile, nota Artoni, e soprattutto di incremento delle entrate, che aumentano di otto punti percentuali. Il grande problema restano i tassi di interesse reali che dobbiamo pagare sul debito. Spaventosamente alti. Viaggiano intorno al 5%, con un’incidenza della spesa per interessi sul debito pubblico che nel 1994 raggiungerà il 12% del Pil. «In questo periodo deve essere sottolineata la passività delle nostre autorità di politica economica – accusa Artoni – che hanno assistito inerti all’evoluzione della nostra finanza pubblica, forse soddisfatte del fatto che a tassi di interesse reali così elevati fosse comunque possibile il finanziamento del Tesoro».
La spallata di Soros
Nell’estate del 1992, pochi mesi dopo la firma del trattato di Maastricht, arriva la spallata sui mercati: il finanziere George Soros mette alla prova la tenuta dello Sme con un violento attacco speculativo, spingendo sterlina britannica e lira quasi fuori dal sistema e costringendo Bankitalia a una svalutazione brusca del 7%. Nel 1994 il debito pubblico raggiunge il 124% del Pil. Da allora è passato quasi un quarto di secolo, ma siamo ancora all’anno zero. Anzi in condizioni peggiori, con un passivo superiore al 130% del Pil. Condannati a morire di debito.