di STEFANIA PIAZZO – Guardate cosa scriveva il Censis un anno fa. Ho la cattiva abitudine di riempire i cassetti di carte e di cose interessanti da leggere anche con più calma, report utili da ripassare per ricordare i fatti. E il cassetto della memoria storica breve cosa permette di rispolverare per capire il successo elettorale del Capitano. Un sovranismo psichico che si è impossessato della capacità di distinguere, discernere, liberamente valutare. Manipolazione delle coscienze, si potrebbe dire? Leggete il report. Gli effetti stanno ricadendo nella politica di oggi.
L’Italia del rancore dopo un anno si è incattivita. Il rapporto Censis
Per il 75% degli italiani gli immigrati fanno aumentare la criminalità, per il 63% sono un peso per il nostro sistema di welfare. Solo il 23% degli italiani ritiene di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori. E il 67% ora guarda il futuro con paura o incertezza
“Le radici sociali di un sovranismo psichico: dopo il rancore, la cattiveria. La delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani. Ecco perché si sono mostrati pronti ad alzare l’asticella”. Lo scrive il Censis nel suo rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, presentato questa mattina dall’amministratore delegato Giorgio de Rita e dal direttore generale Massimiliano Valerii.
Sul ciglio
Gli italiani – scrive l’istituto di ricerca – si sono resi disponibili a compiere un salto rischioso e dall’esito incerto, “un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. E non importa se si rendeva necessario forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche. È stata quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vincesse sull’attuale”.
“È una reazione pre-politica con profonde radici sociali, che alimentano una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria ‒ dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare”.
Il benessere perduto
“Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive. L’Italia è ormai il Paese dell’Unione europea con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori: il 23%, contro una media Ue del 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania. Il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l’89% di quelle a basso reddito sono convinte che resteranno nella loro condizione attuale, ritenendo irrealistico poter diventare benestanti nel corso della propria vita”.
E il 56,3% degli italiani dichiara che non è vero che le cose nel nostro Paese hanno iniziato a cambiare veramente. Il 63,6% è convinto che nessuno ne difende interessi e identità, devono pensarci da soli (e la quota sale al 72% tra chi possiede un basso titolo di studio e al 71,3% tra chi può contare solo su redditi bassi). “La insopportazione degli altri sdogana i pregiudizi, anche quelli prima inconfessabili. Le diversità dagli altri sono percepite come pericoli da cui proteggersi”.
“Il 69,7% degli italiani non vorrebbe come vicini di casa i rom, il 69,4% persone con dipendenze da droga o alcol. Il 52% è convinto che si fa di più per gli immigrati che per gli italiani, quota che raggiunge il 57% tra le persone con redditi bassi. Sono i dati di un cattivismo diffuso che erige muri invisibili, ma spessi. Rispetto al futuro, il 35,6% degli italiani è pessimista perché scruta l’orizzonte con delusione e paura, il 31,3% è incerto e solo il 33,1% è ottimista”.
Domanda di sicurezza
“Il 63% degli italiani vede in modo negativo l’immigrazione da Paesi non comunitari (contro una media Ue del 52%) e il 45% anche da quelli comunitari (rispetto al 29% medio). I più ostili verso gli extracomunitari sono gli italiani più fragili: il 71% di chi ha più di 55 anni e il 78% dei disoccupati, mentre il dato scende al 23% tra gli imprenditori.
Il 58% degli italiani pensa che gli immigrati sottraggano posti di lavoro ai nostri connazionali, il 63% che rappresentano un peso per il nostro sistema di welfare e solo il 37% sottolinea il loro impatto favorevole sull’economia. Per il 75% l’immigrazione aumenta il rischio di criminalità. Cosa attendersi per il futuro? Il 59,3% degli italiani è convinto che tra dieci anni nel nostro Paese non ci sarà un buon livello di integrazione tra etnie e culture diverse.
Disintermediazione totale
“I dispositivi della disintermediazione digitale continuano la loro corsa inarrestabile, battendo anno dopo anno nuovi record in termini di diffusione e di moltiplicazione degli impieghi. Oggi il 78,4% degli italiani utilizza Internet, il 73,8% gli smartphone con connessioni mobili e il 72,5% i social network. Nel caso dei giovani (14-29 anni) le percentuali salgono rispettivamente al 90,2%, all’86,3% e all’85,1%”.
Nell’era biomediatica, in cui uno vale un divo, siamo tutti divi, dicono ancora i ricercatori di piazza di Novella. O nessuno, in realtà, lo è più. La metà della popolazione (il 49,5%) è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (il dato sale al 53,3% tra i giovani di 18-34 anni). Un terzo (il 30,2%) ritiene che la popolarità sui social network sia un ingrediente “fondamentale” per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio (il dato sale al 41,6% tra i giovani). Ma, allo stesso tempo, un quarto degli italiani (il 24,6%) afferma che oggi i divi semplicemente non esistono più. E comunque appena uno su 10 dichiara di ispirarsi ad essi come miti da prendere a modello nella propria vita (il 9,9%). In più, il 41,8% crede di poter trovare su internet le risposte a tutte le domande (il 52,3% tra i giovani).
L’Italia che non vota
L’area del non voto in Italia si compone di 13,7 milioni di persone alla Camera e 12,6 milioni al Senato: sono gli astenuti e i votanti scheda bianca o nulla alle ultime elezioni politiche. La percentuale dell’area del non voto sul totale degli aventi diritto è salita dall’11,3% del 1968 al 23,5% del 1996, fino al 29,4% del 2018.
“Il 49,5% degli italiani ritiene che gli attuali politici siano tutti uguali, e la quota sale al 52,2% tra chi ha un titolo di studio basso e al 54,8% tra le persone a basso reddito. La funzione dei social network nella comunicazione politica è definita “inutile” o addirittura “dannosa” dal 52,9% degli italiani, mentre il 47,1% li giudica al contrario “utili” o “preziosi” perché eliminano ogni filtro nel rapporto tra cittadini e leader politici”.
L’abilità nel muoversi nella post-verità è la cifra del successo politico, se il 68,3% degli italiani ritiene che le fake news hanno un impatto “molto” o “abbastanza” importante nell’orientare l’opinione pubblica. Oggi sembra finito quel gioco combinatorio di identità e interessi che si proiettava nella domanda politica, anche perché i profili identitari dei diversi gruppi sociali sono sempre più sfumati e le relative constituency degli interessi sono sempre più disomogenee.
I giovani europeisti e le diversità culturali come destino
Le giovani generazioni in Europa sono una minoranza. La quota di cittadini europei di età compresa tra 15 e 34 anni è pari al 23,7%, quella dei giovanissimi (15-24 anni) ha un’incidenza di poco superiore al 10%. In dieci anni, dal 2007 al 2017, la coorte dei 15-34enni si è contratta dell’8%. L’Italia, con la sua quota del 20,8% di giovani di 15-34 anni sulla popolazione complessiva, di tutti i 28 Paesi membri dell’Ue è quello con la più bassa percentuale di giovani, diminuita nel decennio del 9,3%. Libera circolazione, euro e diversità culturali come valori positivi rappresentano però le tre principali accezioni attribuite all’Europa dai giovani europei.
L’ipoteca sul lavoro
Tra il 2000 e il 2017 nel nostro Paese il salario medio annuo è aumentato solo dell’1,4% in termini reali. La differenza è pari a poco più di 400 euro annui, 32 euro in più se considerati su 13 mensilità. Nello stesso periodo in Germania l’incremento è stato del 13,6%, quasi 5.000 euro annui in più, e in Francia di oltre 6.000 euro, cioè 20,4 punti percentuali in più. Se nel 2000 il salario medio italiano rappresentava l’83% di quello tedesco, nel 2017 è sceso al 74% e la forbice si è allargata di 9 punti. Tra il 2007 e il 2017 gli occupati con età compresa tra 25 e 34 anni si sono ridotti del 27,3%, cioè oltre un milione e mezzo di giovani lavoratori in meno.
Nello stesso tempo gli occupati di 55-64 anni sono aumentati del 72,8%:
“In dieci anni siamo passati da un rapporto di 236 giovani occupati ogni 100 anziani a 99. Mentre nel segmento più istruito i 249 giovani laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani del 2007 sono diventati appena 143”.
L’Italia che va e quella che resta indietro
A fine 2017 il Paese era ancora 4 punti sotto il valore del Pil del 2008, ma con regioni in pieno recupero (-1,3% la Lombardia e -1,5% l’Emilia Romagna) e altre in forte arretramento: -5,0% il Lazio, -6,2% il Piemonte, -7,9% la Campania, -10,3% la Sicilia, -10,7% la Liguria.