Cechia e Slovacchia, vent’anni di storia di una secessione senza guerra

di STEFANO MAGNI

Secessione non fa rima con guerra. Ci ricordiamo tutti dell’assedio di Sarajevo (che iniziava 20 anni fa in Bosnia-Erzegovina), del massacro di Vukovar (appena 21 anni fa in Croazia), delle lunghe guerre nel Caucaso. Ma gli esempi di secessione consensuale sono molto più numerosi, anche se non ce ne accorgiamo nemmeno. Basti pensare a una meta tradizionale del nostro turismo low cost: Praga. E’ la capitale di uno Stato, la Repubblica Ceca, nato da una secessione. Altra meta gettonatissima del turismo low cost: Bratislava. E’ la capitale dello Stato resosi indipendente dal governo di Praga: la Slovacchia, noto in Italia per aver battuto la nostra nazionale di calcio, per essere lo scenario del film horror The Hostel e per avere la più alta concentrazione di belle ragazze nell’Europa centrale. Qualcuno ricorda che è nato da una separazione? No.

Appena si arriva a Praga o a Bratislava, la prima sensazione è di respirare un’aria di estremo dinamismo e benessere. Non è un’impressione sbagliata. La Slovacchia, dopo la mazzata della crisiè tornata a crescere a ritmi sostenuti (+4% del Pil nel 2010). Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, sotto l’energico governo riformatore di Dzurinda, era la “tigre del centro Europa”. Praga è ancora più frenetica: al di là del quieto centro storico medioevale, può essere vissuta come una vera New York europea. Non si ferma mai. Merito, soprattutto, dell’ex premier e attuale presidente Vaclav Klaus, autore di un vero “miracolo economico”. Questi tempi di crescita e i livelli di benessere raggiunti in meno di un ventennio, probabilmente non sarebbero mai stati possibili senza una separazione fra due nazioni che, pur vivendo sotto lo stesso Stato, dovevano prendere direzioni opposte.

Fra le varie regioni che componevano la Cecoslovacchia, non c’è mai stata una storia comune. Sono un popolo di agricoltori ferventi cattolici gli slovacchi, pionieri dell’industria e aperti al protestantesimo e al laicismo i cechi. Nemmeno all’interno dell’impero asburgico hanno trovato un destino comune: i cechi erano nell’area di influenza di Vienna, gli slovacchi in quella di Budapest. Fu solo nella Prima Guerra Mondiale che il professor Tomas Masaryk iniziò a concepire, nel suo esilio da dissidente, uno stato ceco-slovacco, indipendente dall’Impero Dopo lunghe resistenze e titubanze, la Cecoslovacchia nacque, sulla carta, con gli accordi di Pittsburgh solo nel maggio del 1918. Rientrava nell’interesse delle potenze che si apprestavano a vincere contro l’Impero Austro-Ungarico. Però, nessuna delle ragioni, per le quali il nuovo Stato bi-nazionale era sorto, stava in piedi. L’ideologia dell’unità slava andò a farsi benedire quando gli slovacchi scoprirono di avere un nuovo padrone: Praga al posto di Budapest. Tutti gli alti funzionari, gli ufficiali, gli insegnanti erano cechi. Nemmeno la religione cattolica si sentiva del tutto a suo agio sotto il nuovo governo laico. E non a caso furono proprio i cattolici, sotto la guida di Monsignor Jozef Tiso, a guidare l’indipendentismo. Anche l’idea di creare uno Stato forte ai confini della Germania (per contenerla) non resse alla prova dei fatti. Hitler non ebbe nemmeno bisogno di combattere per annettere tutto l’attuale territorio della Repubblica Ceca e dare l’indipendenza alla. Il primo sogno di libertà di Bratislava si infranse, dunque, nella dura realtà del collaborazionismo filo-tedesco. E si concluse nel sangue e con una maledizione storica: Monsignor Tiso fu giustiziato per crimini di guerra e contro l’umanità, la Slovacchia portò da allora in poi il marchio di infamia del collaborazionismo, sotto il nuovo regime comunista instaurato dai sovietici nel 1948.

Il sistema socialista reale non servì affatto a rendere più omogenee le due realtà. Nel 1968, nel periodo di riforme fallite noto come “Primavera di Praga” (repressa dai carri armati sovietici) fu reintrodotta una costituzione federale. Ma già nel 1970, nel periodo di repressione noto come “normalizzazione”, il federalismo fu sospeso a tempo indeterminato.

Il regime comunista collassò senza colpo ferire dopo appena due settimane di manifestazioni nonviolente, lasciando in eredità un’economia in rovina. Era giunta la “rivoluzione di velluto” del novembre 1989. L’indipendentismo slovacco era ancora presente, tanto è vero che le prime libere elezioni vennero vinte dal Movimento per la Slovacchia Democratica, di Vladimir Meciar, un ex comunista, ben poco riformatore, favorevole ad un’ampia autonomia. A Praga, invece, prevalse il Partito Democratico Civico di Vaclav Klaus, favorevole al centralismo amministrativo e a rapide riforme liberali. Due opposti inconciliabili. Klaus, essendo un dissidente anti-sovietico, fece passare la legge che escludeva gli uomini dell’ex apparato comunista dalle alte cariche pubbliche. Meciar, che era pur sempre un ex uomo del partito (anche se “deviazionista” ed espulso in tempi non sospetti), non voleva la rottura col passato, né dal punto di vista economico, né da quello politico. Le due parti del Paese volevano entrambe riformarsi e rinascere dopo il collasso del comunismo, ma ciascuna con i suoi tempi e modi diversi. Alla fine giunsero alla conclusione che separarsi fosse meglio per tutti. L’accordo del “divorzio” fu raggiunto nel luglio del 1992 a Bratislava, senza alcun referendum. Nel gennaio successivo la Cecoslovacchia era già un Paese diviso in due da un nuovo confine, con due differenti valute, due eserciti, due polizie, istituzioni e infrastrutture separate. Nessuno rimpiange il vecchio Stato bi-nazionale. Nessuno si è fatto male nel dividerlo.

Rilanciamo questo articolo, che è stato pubblicato su l’Indipendenza nel gennaio del 2012

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