di ROMANO BRACALINI – L’ esimio professor Spaventa, economista “liberale” d’ascendenza sovietica, liquidava come “sciocchezze” le critiche all’euro
e l’ipotesi di una ritorno alla lira, o alla doppia circolazione; e a supporto del suo ragionamento citava il cattivo esempio dell’Argentina che aveva agganciato il peso argentino al dollaro americano e andò in rovina. Ma dimenticò il caso di Cuba, dove accanto al peso cubano, avevano corso legale il dollaro e l’euro, ma forse fu per un riguardo a un regime amico.
A Spaventa, ex Pci di modernità, riconosciamo solo d’essere stato in passato il convinto assertore dell’economia dello sfascio, con metà del mondo sovietizzato e i piani quinquennali della miseria di cui l’eccelso economista, in vena di lezioni postdatate, avrà tessuto più di un elogio.
La moneta è sangue di popolo, un portato della storia. Non un calcolo di banchieri. L’euro è come un’adozione fatta per forza e non riesce ancora a farsi accettare. Si calcola in euro e poi si traduce. Il riferimento è sempre alla lira che ci dice come tutto sia raddoppiato a parità di salario. La moneta non è solo un’unità di misura che sostiene l’arida economia, è anche un simbolo alto, rappresenta gli umori, le aspirazioni e le costanti di un popolo, è come una bandiera. Ma vaglielo a dire agli estimatori dell’economia pianificata e statalizzata come il professor Spaventa!
Benché moneta non solo italiana, la lira ha rappresentato bene i sentimenti e la vocazione del popolo. Ha segnato i progressi e le cadute. Sono cambiati i regimi ma la lira è sempre rimasta, sotto la Monarchia, sotto la Repubblica. Nessuno si sarebbe sognato di cambiarla. La lira nella sua flessibilità e nella sua umiltà aveva una sua sagace capacità d’adattamento alle epoche turbolente e ai tempi ordinari. Cambiava solo la dimensione. Le mille lire erano un lenzuolo che doveva ispirare l’idea del suo valore.
Negli Stati Uniti il dollaro è sempre stato uguale nei suoi tagli classici e nel color verde della banconota dal giorno in cui cominciò a circolare in America. “In God we trust” (Confidiamo in Dio), è il motto che riecheggia la fede e la concordia dei padri pellegrini. La liretta ha cambiato mille volte formato e colore. Proprio come noi. Perciò le eravamo affezionati. Non era né migliore né peggiore. Noi che non crediamo in nulla, invece di scrivere frasi edificanti che avrebbero fatto ridere i polli, ci limitammo ad ammonire gli spacciatori di biglietti falsi, giusto per farci subito riconoscere.
Gli austriaci dicevano che gli italiani erano un popolo di ladri, senza che potessimo smentirlo interamente. Ma eravamo anche un popolo creativo e canterino e prima della guerra trovammo il modo di ispirarci alla lira per stare allegri e cantare le nostre più spensierate virtù mimetiche. Il motivo di successo Mille lire al mese era il traguardo ambìto di un impiegato medio. Per andare in America bastavano 100 lire; e ci fu un tempo in cui la lira faceva aggio sull’oro, negli anni Trenta la lira stabilì la parità con la sterlina a quota 90. Non fu sempre una liretta stracciona. Con l’occupazione militare alleata della penisola, la lira venne sostituita dalle Amlire, facilmente falsificabili e proprio per questo provocarono una spaventosa inflazione e il dissesto della fragile economia di sussistenza.
Il cambio imposto era di cento Amlire per un dollaro. Le Amlire erano il simbolo della disfatta, e tuttavia rappresentarono la nostra capacità d’adattamento
insieme al crollo dell’orgoglio nazionale. La moneta è il primo segnale di sovranità e per essere accettata deve crescere col popolo. Le Amlire circolarono
anche nel dopoguerra. Quando vennero emesse nuovamente le lire la storia parve ricominciare. La lira circolava già prima dell’unità.
L’aveva adottata secoli prima Carlo Magno, che forse pensava di adottarla come moneta europea. C’era la lira veneziana; e c’era la lira milanese sotto l’Austria che consentiva la doppia circolazione della lira e del fiorino. Lo sapeva il professor Spaventa? C’era la lira toscana e c’era la lira piemontese. Nel 1861 la lira divenne la moneta ufficiale dello Stato unitario sabaudo. Ci volle la lesina di Quintino Sella per rimettere in sesto i conti. La lira divenne una moneta forte e stabile, tra le più ambìte d’Europa. È stato calcolato che dal 1861 al 1965 il valore della lira è diminuito di 466 volte.
Ma ci sono voluti 104 anni. In tre anni il potere d’acquisto degli italiani con l’euro diminuì del 50%… L’euro è sopravvalutato e rappresenta economie
deboli che non se lo possono permettere, come il Portogallo e la Grecia. Ma è stato un traguardo politico per politicanti scaltri che vi hanno investito la
loro fortuna elettorale, come Prodi, un furbo di tre cotte ed economista per burletta.
L’euro vorrebbe significare l’avvenire con tutte quelle finestre e archi aperti al mondo, ma senza abolire le porte che hanno ancora una funzione: quella di far entrare chi si vuole, se ci è ancora permesso. È ancora rigido e freddo e ha un suono quasi metallico che si addice alla rigidità dei burocrati, la sola moneta che non ha un plurale, un euro o 100 euro si chiamano allo stesso modo. Almeno la lira ci ha rappresentato per quel che siamo, senza ciurlare nel manico copiando i nostri difetti. L’euro invece è il ritratto sputato di questa Europa gretta, mercantile, confusa, senza più uno straccio di identità, che scambia la debolezza per tolleranza, ove la tolleranza è scambiata per arrendevolezza e rinuncia dai clandestini liberi di delinquere e stuprare e dalla nuove dottrine totalitarie d’importazione.
L’Europa deve svuotare la pattumiera e ristabilire un ordine credibile e condiviso se vuole sopravvivere alla crescente protesta dei popoli europei. L’euro è stato un atto d’imperio, un atto di superbia di politici sconsiderati. Prima vengono le nazioni e poi la moneta. Scontiamo un errore storico e di metodo.
Al mercato 1.000 lire erano 1.000 lire e qualcosa ci compravi. 1.000 lire erano la mancia al cameriere. Oggi se lasci 50 centesimi sei un morto di fame. Gli iberici Almunia e Barroso, burocrati di rango, stanno perennemente in cattedra forse per antico complesso, venendo entrambi da un’Europa marginale che nei secoli ha dato ben pochi esempi di buon governo. Fanno i conti della serva e alzano il ditino ammonitore. Non so se tornare indietro è possibile. Ma un cambio di rotta è necessario.
(fonte: Il Federalismo)