di ROMANO BRACALINI
L’Italia unendosi è regredita sotto molti aspetti della vita civile. Si direbbe abbia messo un talento speciale per ereditare il peggio e scartare il meglio di ciò che offrivano i sette Stati preunitari. Il sistema giudiziario e le carceri sono solitamente citati come esempio della civiltà di un Paese. In paesi come l’Italia, a metà strada tra l’Europa e il Medio Oriente, le garanzie costituzionali sono pura teoria e cessano di avere validità non appena il reo entra in cella. I tempi d’attesa per essere giudicati o solo interrogati possono essere infiniti, benché la legge ne disciplini la durata. I casi di omonimia sono spesso alla base di condanne di innocenti, e quando viene riconosciuto l’errore giudiziario la vittima,dopo mesi e anni di ingiusta detenzione, non viene nemmeno risarcita.
I patrioti del Risorgimento fecero a gara per descrivere le condizioni delle carceri piemontesi e borboniche. A Napoli il sistema carcerario era altrettanto iniquo di quello piemontese ma i Borboni, a differenza dei Savoia, non potevano contare sulla benevola comprensione dei liberali. Nel 1847 Luigi Settembrini, un modesto insegnante e uno strenuo assertore dell’unità nazionale, assurse a grande notorietà dopo la pubblicazione di un opuscolo anonimo,“Una protesta del popolo del Regno delle Due Sicilie”, in cui descriveva l’inferno delle carceri napoletane riferendo la propria esperienza di prigionierio politico. Lo scritto benché privo d’ogni interesse letterario venne abilmente sfruttato dalla propaganda. La verità della Protesta del Settembrini, diventata un testo sacro del patriottismo militante, non aveva alcun bisogno d’essere provata; così come “Le mie prigioni” di Silvio Pellico,scritte col medesimo intento,non cancellavano il fatto che le carceri austriache,messe sotto accusa dal modesto bibliotecario di Saluzzo, fossero assai più umane e civili di quelle piemontesi.
Nel 1850 un deputato conservatore inglese, Baillie Cochrane, studioso dei sistemi carcerari,ottenne dal governo borbonico il permesso di visitare alcune carceri napoletane,nel quartiere di Porta Capuana. Disse che per descrivere ciò che aveva visto sarebbe stata necessaria l’immaginazione di Dante. Le celle erano in uno stato di “bestiale sudiciume” e i prigionieri politici,ex ministri e gentiluomini un tempo nelle grazie del re,costretti a mescolarsi con la peggiore feccia delle galere. Chiese di visitare il piano sotterraneo del carcere del popolo. Vi albergava, scrisse, ”il vizio in tutta la sua degradazione e il suo orrore”.Aveva parlato con un vecchio recluso da venticinque anni senza che mai fosse stato giudicato. A Napoli il processo penale fu peggiorato rispetto al vecchio.Venne introdotto il reato di vilipendio (ereditato dalla repubblica italiana). Vennero inasprite le pene e le leggi di polizia,”essendo turbata la quiete pubblica da gran numero di malfattori”, dice il Colletta. Tornarono le commissioni militari e i “tribunali atroci” che condannavano il reo senza garanzie legali .La barba lunga e i cappelli a larga tesa erano un motivo sufficiente per essere arrestati e giudicati dalla “commissione delle legnate”.
L’Italia moderna non raggiunge questi vertici ma è assai lontana dai traguardi civili di una Inghilterra. Un solo Stato in Italia vantava il medesimo sistema giudiziario del Regno Unito, ed era la Repubblica di Venezia.Mentre altrove,nella penisola, si svolgevano processi sommari,senza pubblicità e senza difesa, a Venezia il sistema delle garanzie costituzionali (basato sul medesimo Habeas corpus inglese) era in pieno vigore.Venezia aveva mantenuto fin dai tempi più antichi un ordinamento ammirevole in materia di garanzie giudiziarie sia civili che penali. Ne faceva fede la costante propensione degli ordinamenti e delle leggi a favorire soluzioni “in arbitri”,o comunque con modalità amichevoli per le controversie civili soprattutto di carattere economico. Le sentenze erano eque,mai ispirate al carattere punitivo. Ed è opportuno ricordare, a questa Italia del diritto e del rovescio,che fin dal XIII secolo, la Serenissima aveva stabilito in un mese il limite massimo che poteva intercorrere, per qualsiasi indiziato di reato,tra il momento dell’arresto e quello del processo.In Italia su 100 detenuti,58 sono in cella senza condanne definitive. Urge rivoluzione alla rovescia!