di ROMANO BRACALINI* – Nel febbraio 1864 Hippolyte Taine, storico e critico francese, si imbarcò a Marsiglia per l’Italia. Visitò Roma e Napoli poi, lentamente, risalì la penisola: Firenze, Venezia, Milano. Al suo ritorno scrisse un libro, Viaggio in Italia, che fece scalpore. In Italia venne censurato.
«Napoli – scrisse – aveva un’indole ossequiosa, lassista, ciarliera, parassita, ruffiana, servile, unita all’arte di aggirare le difficoltà, all’avversione alla fatica. A Roma ognuno aveva il suo protettore, ne occorreva uno per ogni cosa. Non valeva la forza ma la dritta. Quanto allo spirito pubblico, il tratto distintivo degli italiani era la mancanza di carattere».
Non aveva visto nulla che suggerisse un sentimento di unità e di concordia. Erano frammenti di paesi diversi in uno solo. E tuttavia l’unità italiana rientrava nella strategia di riassetto europeo e di equilibrio fra le potenze. Napoleone III, dopo la guerra del ’59, che aveva fruttato al Piemonte la Lombardia ma non il Veneto, aveva immaginato il futuro assetto federale dell’Italia. Il Nord sotto la sovranità di casa Savoia, la Toscana alla Francia, sua antica aspirazione, Roma al Papa, com’è giusto, il Sud ai Borboni, la Sicilia all’Inghilterra. I Savoia giocarono d’anticipo con due mosse abili che spiazzarono i francesi. I plebisciti bulgari in Emilia e in Toscana e la conquista militare del Sud. Quest’ultima venne studiata in modo da sembrare un’impresa avvenuta all’insaputa di Torino.
La Francia occupò Roma a difesa della sovranità del Papa e nel 1864 impose al governo italiano la convenzione di settembre con la quale la capitale veniva spostata da Torino a Firenze a garanzia della sua rinuncia a Roma capitale. E tuttavia perfino l’Italietta della gabola ritenne di dover salvare le apparenze dando agli emiliani e ai toscani (ma non ai meridionali) e più tardi ai veneti e ai romani, la parvenza di esprimersi con un voto striminzito per chi sapeva leggere e scrivere. L’unità europea ci appare anche più arcigna e distante. Decidono i burocrati di Bruxelles. Nessuno ci chiede nulla. Coi nuovi ingressi dall’Est potranno entrare liberamente spacciatori e mignotte. Ma i cavolini di Bruxelles saranno della misura giusta. Il popolo bue non si deve intromettere.
Un’Europa che non suscita né passione né calore. Un pinguino ne susciterebbe di più. Bruxelles insiste sul processo d’integrazione. Un processo a marce forzate che presuppone la cancellazione della storia, delle culture, delle tradizioni, della nostra identità. Sarà rispettata l’identità dei musulmani, la loro va bene, la nostra no. L’Europa assomiglierà più a un impero che a una federazione di popoli sovrani. Mi viene in mente una frase di Carlo Cattaneo che calza a pennello. Verrà imposto un manto comune che non esiste. Un’Europa d’impianto ideologico sovietico che vuol persino stabilire le misure dei sedili sui mezzi di trasporto. Gli inglesi si sono opposti dicendo che i loro sederi sono più piccoli di quelli dei tedeschi mangiatori di salsicce. L’ex dissidente russo Vladimir Bukoskij ha detto che anche l’Ue cadrà come l’Unione Sovietica. Noi siamo lì ad aspettare il botto.