di Roberto Bernardelli – Sono passati 22 anni da quando la Lega in piazza bruciò i libretti dell’abbonamento alla Rai. Fu l’apice di una protesta, a dire il vero mai portata fino in fondo, che tuttavia portò poi molti cittadini a dare disdetta per il sugellamento dell’apparecchio. Si mobilitarono decine di associazioni dei consumatori per indicare la via maestra della pratica, a dire il vero all’apparenza semplice, ma piena di piccole furbizie per non venirne fuori. Alla fine, però, tra raccomandate, fotocopie e bollettini, l’impresa risultò possibile a tanti.
Poi, il governo ha deciso che il metodo di riscossione cambia agente….: l’Enel piuttosto che Edison piuttosto che altri gestori dell’energia, visto che il canone è entrato in bolletta.
Commentava così Pierluigi Battista sul Corriere della Sera alla notizia del prelievo diretto: “Va bene, pagheremo quell’odioso balzello denominato «canone Rai» con la bolletta dell’elettricità. Ciò non toglie che saremo costretti a pagare una tassa iniqua e ingiustificata. Perché è un residuo di un’epoca finita, quella in cui non esisteva il telecomando, lo smartphone, il tablet, e non esisteva nemmeno il computer”.
Ma non solo: si parla di un’epoca in cui forse aveva ragione d’esistere il canone perché c’era un monopolio, e tutto era mono. Un solo tg, una sola radio, come essere “più o meno nel Medioevo”.
Poi il Corrierone la poneva su un altro piano: “Perché l’obbligo fiscale di un canone va contro il principio della libertà di scelta: pago il biglietto del cinema o di un concerto, se lo scelgo io; pago il prezzo di un giornale se lo scelgo io; pago una tv tematica non di Stato se la scelgo io; sono invece costretto a pagare la tassa per la Rai anche se non vedo programmi Rai, o li vedo in misura inferiore a quelli di altre emittenti televisive che non possono usufruire dei proventi di una tassa obbligatoria”.
Insomma, è concorrenza sleale. Perché è lo Stato che pretende di essere pagato. E perché confonde la missione di servizio pubblico con quello di esattore di una tassa dove non ci sono limiti alla pubblicità, come invece per la Bbc. Poi, leggete bene: “Stabilisce un’arbitraria e ideologicamente polverosa equiparazione tra «pubblico» e «di Stato» (mentre molte trasmissioni di reti private fanno più «servizio pubblico» della Rai). Crea assuefazione all’idea che «servizio pubblico», che magari potrebbe limitarsi a una sola rete sottratta al mercato, debba dotarsi di un apparato elefantiaco, pletorico, terreno di caccia e di conquista dei partiti che continuano ad esserne i veri «editori»”.
Basta e avanza per ricordare che il referendum del 1996 sulla privatizzazione è lettera morta, perché altrimenti partiti e apparato come potrebbero avere le spalle coperte dall’informazione “pubblica”? Paghiamo tutti, certo, -scrive PG Battista – ma paghiamo una cosa ingiusta”. E adesso, la politica che fa, tace?