di ROMANO BRACALINI – L’Italia spaccata in due riecheggia il titolo di un famoso libro di Benedetto Croce che rimanda agli anni in cui (1944-’45) la penisola era contesa tra gli anglo-americani al Centro-Sud e i tedeschi al Nord.
Napoleone diceva che la penisola era troppo stretta e troppo lunga per poterne con-ciliare i contrastanti interessi, costumi, gu-sti, abitudini. L’unità ne accentuò solo i contrasti e le rivalità. Il dissidio Nord/Sud si profilò quasi subito. Fu il primo impedi-mento a un ordinato sviluppo, un perenne elemento di discordia. Il governo unitario dovette conquistare il Sud con la forza militare e se ne alienò per sempre i favori e le simpatie.
La questione meridionale era speculare alla questione settentrionale, ma la prima si considerò prioritaria e urgente di cure e di assistenza, e si trascurò quella realtà intermedia che era il Centro Italia, che aveva caratteristiche che variavano anche al suo interno e tipologie politico-culturali non assimilabili né al Nord, né al Sud.
Le carte geografiche dell’Ottocento, ritoccate a mano, nel loro linguaggio arcaico e desueto, dividevano l’Italia in tre parti distinte. Gianfranco Miglio avrebbe detto in tre macroregioni e cioè in “superiore, mediana e inferiore”, senza voler fare una classifica di merito; e la si divideva più in base a criteri storico-culturali omogenei, che per ripartizioni rigidamente geografi-che. Fino all’avvento del Fascismo l’Italia superiore (o settentrionale) comprendeva il Piemonte (con la Valle d’Aosta), la Lom-bardia, le tre Venezie, la Liguria: (ovvero l’ex regno di Sardegna e il Lombardo-Veneto, con l’aggiunta delle nuove province); l’Italia mediana (o centrale) comprendeva l’Emilia, le Romagne, la Tosca-na, il Lazio, le Marche, l’Umbria: (ovvero l’ex Graducato di Toscana, i ducati di Modena e Parma e lo Stato Pontificio), l’Italia inferiore (o meridionale) comprendeva l’Abruzzo e Molise, la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia: (ovvero l’ex regno di Napoli), più la Sardegna appartenuta al re sabaudo.
Specialmente l’Italia mediana, sempre tra-scurata, era ed è fortemente caratterizzata e il voto omogeneo da Bologna, a Firenze, a Perugia lo ha dimostrato ampiamente. Le elezioni politiche hanno riscoperto con la mappa del voto una realtà che la retorica e le convenzioni avevano fatto dimenticare: e cioè che il Paese, come nell’epoca preunita-ria, è esattamente diviso in tre antità distinte e diverse. C’è un Nord liberale e ricco, produttivo e moderno, motore del Paese, che vota Centro-Destra, dal Piemonte al Veneto, con l’eccezione della Liguria, pigra appendice; c’è un Centro statalista, dirigista, conformista che vota comunista, dall’Emilia alla Toscana alle Marche all’Umbria; e c’è un Sud tradizionalmente clientelare ma che in regioni importanti dà segni di risveglio e di ribellione al vecchio potere dei mazzieri e dei galantuomini.
Milano, capitale del Nord, è sempre stata all’avanguardia in ogni epoca. Nell’Ottocento fu la capitale del Risorgimento liberale e federalista di Carlo Cattaneo. Dal Barbarossa a Bava Beccaris venivano tutti con quEll’idea fissa: “Doma Milano e domine-rai l’Italia”. Il modello Milano si impone-va e dava la linea al Paese. Prodi dovrà tenerlo a mente. Deve anche sapere che non si governa contro Milano.
Gaetano Salvemini, galantuomo libertario meridionale, diceva che quello che fa oggi Milano, domani lo farà l’Italia. Se ne sono già visti gli effetti. Il Piemonte, contro tutte le previsioni, è sfuggito al vecchio potere oligarchico, monolitico, grigio dei Chiam-parino e delle Bresso che ora governano contro la maggioranza espressa dagli elettori. Il Piemonte, o meglio Torino, ancora da espugnare, custodiva la teca calda dell’ultimo comunismo stalinista e coltivava le nostalgie dell’aristocrazia operaia, oggi in via d’estinzione, che da sola significava virtù e bellezza e verità; e d’un tratto anche il muro di Torino crolla.
Se il Ticino non fa più da confine tra Pie-monte e Lombardo-Veneto e lo sguardo arriva più lontano, lo scenario cambia sulla riva destra del Po. L’Emilia-Romagna, sal-vo Piacenza che guarda Milano e volta le spalle a Bologna, è sempre stata un’appendice di Roma imperiale e papale, la città prediletta dal Duce, la città della X Legio, prediletta da Giulio Cesare, il fondatore del primo impero di Roma. La storia vi ha lasciato il suo marchio indelebile in un riflesso di ubbidienza curiale. L’agire felpato, guardingo, cauto ha sempre distinto l’emiliano, qualunque fossero le sue idee: fascista, democristiano, comunista. Si è devoti al vescovo, come si ubbidisce al partito. È curioso scoprire nel carattere iperbolico ed esagerato dell’emiliano un irrefrenabile bisogno di gerarchia e di protezione. Non sembrerà senza significato che le due regioni rosse per eccellenza, l’Emilia e la Toscana, furono anche quelle più violentemente
e tragicamente fasciste. Qui il passo è breve.
Scendi oltre l’Appennino e sei in Toscana. L’unità relegò Firenze a un rango politico e culturale secondario, da capitale medicea e granducale a tavola calda del turismo più becero e onnivoro. Ma tutto ciò non basta a spiegare il mistero del suo gretto immobili-smo che dura da oltre mezzo secolo, né si comprendono razionalmente le ragioni del suo ostinato rifiuto. Qui non c’è mai stata tirannia né voglia di mannaia; le libertà civili e il rispetto dell’individuo non erano vane declamazioni. Resterà perciò un mistero come una regione civile, lontana da ogni tentazione di arbitrio e di sopraffazione, abbia potuto far proprie dottrine e idee illiberali che negano tutta una tradizione di gentilezza e libertà; a meno che un residuo di masochismo cattivo rimanga al fondo dell’animo toscano che nei secoli, in un impulso del carattere, ha sempre cacciato i talenti, per invidia e risentimento, e s’è sempre tenuta le mezzecalzette. Ma con tutte le eccezioni del carattere e della storia
non si riesce ugualmente a capire come il popolo toscano sia potuto scadere dagli splendori del Rinascimento al comunismo alla “fettunta” di Vannino Chiti. Ne discen-de qualche considerazione. Se le Italie sono tre e così diverse, come
pare, il Federalismo è la sola formula politi-ca che possa conciliare le diversità nel rispetto delle idee, delle volontà, delle autonomie di tutti. Formula che consiste nella libertà dei fiorentini di preferire la pappa col pomodoro e di eleggere il loro legittimo governo; formula che però consiste nella medesima libertà dei milanesi di eleggere il governo loro. La prospettiva, come appare dalla mappa elettorale, è quella di un’Italia divisa in tre macroregioni. Che ci sarebbe di
male? Non più un solo governo centrale. Ma governi eletti per territori omogenei. Non è stata questa in fondo la volontà
espressa dagli elettori? L’Italia è già federale nei fatti. Basta prenderne atto. È chiaro così?
(da Il Federalismo, direttore Stefania Piazzo)