Articolo 18, una riforma che non può più aspettare

di GIUSEPPE ISIDORO VIO

L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori disciplina il licenziamento individuale, stabilendo l’obbligo per il datore di reintegrare il lavoratore licenziato senza giusta causa. Il lavoratore ingiustamente licenziato, oltre a ricevere il risarcimento per tutti gli anni di durata della causa (spesso pluridecennale) ha facoltà di richiedere il reintegro.

E’ una “conquista” dei lavoratori dipendenti che risale al 1970 (in una situazione storica totalmente diversa dall’attuale) e come tale è stata ritenuta dalla maggior parte dei giudici. Infatti, per consuetudine, nei Tribunali del lavoro essi hanno interpretano tale norma di solito a favore del dipendente, ritenuto la parte debole, anche di fronte a chiare motivazioni economiche o clamorose motivazioni disciplinari (si pensi solo al caso del personale di terra nell’aeroporto Malpensa, filmato mentre violava i bagagli dei passeggeri appropriandosi del contenuto e ciononostante reintegrato dal giudice). La normativa attuale prevede giustificati motivi sia disciplinari, sia economici per licenziare, che però spesso sono ignorati dai giudici del lavoro. Da qui nasce l’esigenza da parte del legislatore di riformare l’art. 18 ed eliminare, sia per i dipendenti privati che pubblici, la possibilità del reintegro tranne che per motivi discriminatori. Chi sostiene che ciò aprirebbe la possibilità per gli imprenditori di operare dei licenziamenti di massa dimentica che per questo esiste già il licenziamento collettivo per ragioni economiche.

Tale riforma consentirebbe invece all’imprenditore e allo Stato di licenziare i dipendenti fannulloni o disonesti con i quali è venuto meno il rapporto di fiducia e operare dei limitati licenziamenti individuali per ragioni economiche, anche se pagando in entrambi i casi dei consistenti indennizzi come contropartita. A livello generale, la riforma del mercato del lavoro dovrebbe prevedere come contropartita alla modifica dell’art. 18, la limitazione a qualche anno del contratto a tempo determinato. In altri termini, trascorso questo periodo di lavoro con la stessa impresa o con lo Stato, il contratto di lavoro diventerà a tempo indeterminato e il lavoratore non sarà più precario potendo essere licenziato solo sulla base dell’art. 18 riformato.

Milioni di giovani lavoratori usciranno dal precariato ma FIOM e CGIL si preoccupano per quei pochi tra di essi che futuramente potrebbero essere licenziati a causa della riforma dell’art. 18 (infatti, se vale la regola dei diritti acquisiti, le modifiche all’art.18 dovrebbero valere solo per i neoassunti). Preoccupazioni immotivate, del resto. Ci penseranno, infatti, i giudici schierati a dare credito alle fantasiose motivazioni discriminatorie che questi pochi sfortunati potranno addurre. L’ambito delle motivazioni discriminatorie per richiedere il reintegro potrebbe, infatti, espandersi a piacere. Se a discriminare ora è il colore della pelle, la lingua, il credo religioso, il sesso, l’orientamento sessuale, le idee politiche, l’iscrizione a un sindacato, l’handicap, l’età e, in generale, le convinzioni personali, perché non potranno esserlo, per un giudice particolarmente motivato, anche la bruttezza (o la bellezza) la squadra del cuore, il modo di vestire, il fumare o l’essere golosi piuttosto che avere un alito pesante a causa di gusti culinari che abbondano con l’aglio?

Come si vede le possibilità per gli imprenditori di licenziare non sono poi così scontate, anche consentendo al giudice il solo reintegro per motivi discriminatori. I comunisti della FIOM ce l’hanno con la libera imprenditoria, che a loro vedere ricatta il lavoratore e se lo licenzia è solo e sempre per ragioni ideologiche o ritorsive, mascherate da ragioni economiche. Fra un po’ però i posti di lavoro se li dovranno creare da sé poiché, anche grazie a CGIL e FIOM, gli imprenditori in Italia, tra quelli che la evitano, quelli che fuggono e altri che si suicidano, diventeranno una specie in via d’estinzione.

Bisogna, invece, rendersi conto che ormai siamo dentro un’economia globale e asimmetrica, nel senso che, in alcuni paesi come il nostro, il mercato del lavoro rigido e le tutele eccessive aumentano i costi di produzione e non consentono un valido ricambio generazionale dei lavoratori, tanto che la produttività è fra le più basse tra i paesi industrializzati. In altri paesi, come gli USA e i paesi emergenti, il mercato del lavoro è flessibile, le tutele minime e l’età media dei lavoratori più bassa e pertanto, per il sistema Italia diventa impossibile competere con queste realtà, sia sul piano dei costi che dell’efficienza, anche se il nostro prodotto ha spesso una qualità migliore.

Da qui nasce la necessità di consentire tanto agli imprenditori che operano in Italia che allo Stato italiano di poter assumere e licenziare quando serve e con rapidità, senza l’ingerenza continua e distruttiva di un sindacato sopravvissuto all’estinzione del comunismo e gli intoppi di un sistema giudiziario lento e bizantino che andrebbe pure esso profondamente riformato. Un mercato del lavoro più flessibile sia in entrata sia in uscita aumenterebbe la competitività del sistema Italia, una condizione necessaria anche se non sufficiente per ritornare a crescere economicamente e garantire quindi quelle tutele per i lavoratori che possiamo permetterci (non certo la cassa integrazione a tempo indeterminato pur di garantire i posti di lavoro fittizi delle imprese decotte) e che sono intrinseche a un’economia dinamica e indispensabili per garantire in generale la coesione sociale.

E’ necessario, tuttavia, ridurre anche la pressione fiscale, un prelievo che sommato a quello della corruttela politica, non è più sopportabile da nessun imprenditore italiano e rappresenta il principale deterrente agli investimenti esteri in Italia. Fatto questo, avrà senso (in maniera oculata, meno plateale e senza compromettere gli interessi delle nostre grandi aziende nazionali) lottare contro l’evasione fiscale e la corruzione politica, non dimenticando però gli sprechi delle risorse pubbliche e i privilegi delle “caste” (politici, boiardi di stato e magistrati) che rendono la nostra spesa pubblica insostenibile e tra le più elevate al mondo.

La richiesta di sacrifici e rinunzie alla classe operaia per essere accetta deve essere accompagnata da una profonda revisione e riduzione della spesa pubblica che elimini ogni sacca di privilegio e di sprechi nel settore pubblico sia a livello centrale che periferico e che porti a un sostanziale snellimento delle istituzioni e dell’apparato burocratico (privatizzazioni e dismissioni, riduzione del numero e dei salari dei parlamentari e dei consiglieri regionali, eliminazione delle province e degli enti inutili, tetto salariale ai manager statali, progressiva riduzione dei dipendenti statali inutili e riduzione se non eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti).

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