Ve lo ricordate l’ex ministro della Difesa, l’economista liberista Antonio Martino? Ai primi conti con i costi-benefici eventuali sull’entrata nell’euro, l’Italia già pagava il conto. Lo spiega bene lo stesso Martino nel documento che vi riproponiamo in esclusiva.
La Gran Bretagna stava invece molto meglio, saldamente ancorata alla sua sterlina. Alla vigilia del voto referendario britannico sulla Brexit, lo scritto che segue pare quanto mai attuale. E noi, già vecchi e superati dagli eventi che già allora si prefiguravano come inevitabili.
di ANTONIO MARTINO – Credo che una riflessione sull’andamento della nostra economia in confronto a quello dell’area dell’euro (la cosiddetta ”Eurolandia”)
e di Paesi a essa esterni potrebbe essere utile. Cominciamo con il tasso di sviluppo. Come già ricordato, Eurolandia cresce meno della metà degli Stati Uniti; l’ultimo dato disponibile fissa al 3,7% la crescita in Usa, all’1,3% quella nella zona dell’euro. Eurolandia cresce anche meno della media dell’Unione europea perché i Paesi europei che sono rimasti fuori dall’euro crescono più di quelli che ci sono entrati.
Tanto per citare il più importante, la Gran Bretagna (che non usa l’euro) ha un tasso di sviluppo che è più che doppio rispetto a quello di Eurolandia (2,7% contro 1,3%). Non si tratta di un evento isolato: ciò è vero infatti non solo per l’ultimo dato ma anche per la crescita media degli ultimi 10 anni: dal 1995 al 2004, l’economia Usa è cresciuta al tasso medio annuo del 3,32%, la Gran Bretagna al 2,83%, Eurolandia di solo il 2,04%. Lo stacco è diventato più marcato negli ultimi anni: dal 2000 al 2004 gli Usa hanno avuto un tasso medio annuo di crescita del 2,8%, la Gran Bretagna del 2,7%, Eurolandia dell’1,7%. Gli entusiasti apologeti dell’euro dovrebbero spiegarci perché i Paesi che non lo usano crescono sistematicamente più di quelli che lo usano.
E l’Italia? Tranne gli ultimissimi dati, che mostrano un andamento negativo, l’Italia ha avuto tassi di sviluppo sostanzialmente uguali a quelli di Eurolandia: dal 1995 al 2004 2% per l’Italia, 2,04% per Eurolandia, facendo assai meglio di altri grandi Paesi della zona dell’euro, come Francia e Germania. E questo è vero sia per il primo quinquennio (quando al potere c’erano le sinistre) sia per il secondo (quando il Paese è stato governato dal centro- destra).
La storia è ancora più suggestiva se si guarda alla disoccupazione: dal 1995 al 2004 il tasso medio annuo di disoccupazione negli Usa è stato pari al 5,08%, in Gran Bretagna al 6,06% e in Eurolandia al 9,27%. Se poi dividiamo il periodo in due quinquenni, scopriamo che, mentre in Usa il tasso di disoccupazione medio è rimasto costante al 5,08%, in Gran Bretagna è diminuito (dal 7,1% al 5,02%), in
Eurolandia è sì diminuito, ma rimasto eccessivamente elevato (passando dal 10,2% all’8,34%). Né le cose si sono modificate negli ultimi tempi: l’ultimo dato disponibile indica un tasso di disoccupazione di quasi il 9% in Eurolandia, contro il 5,1% degli Usa e il 4,7% della Gran Bretagna.
I turiferari dell’euro dovrebbero spiegarci perché la zona dell’euro invariabilmente continua ad avere un tasso di disoccupazione tanto maggiore di quello dei Paesi che non ne fanno uso. E l’Italia? Il nostro Paese ha realizzato un piccolo miracolo, abbattendo il tasso di disoccupazione, sceso dall’11,2% del quinquennio 1995-2000 (quando erano al potere le sinistre) all’8,84% del quinquennio successivo (quando al governo c’era il centro-destra), fino a scendere sotto l’8% in base all’ultimo dato. Merita anche di sottolineare che con le sinistre al potere il tasso di disoccupazione in Italia è sempre stato più alto di quello medio di Eurolandia, mentre negli ultimi tre anni è stato sempre inferiore.
Alla luce di questi dati, mi sembra inconfutabile che, anzitutto, i problemi economici che affliggono l’Italia non sono una nostra esclusiva ma riguardano anche il resto d’Europa. In secondo luogo, non è possibile negare che la crisi, dal momento che riguarda i Paesi europei che usano l’euro ma non gli altri, ha una sua dimensione monetaria, legata cioè alla moneta europea. Infine, che il modo col quale questa moneta è stata introdotta e i criteri con cui viene gestita meritavano probabilmente le critiche di chi, come chi scrive, è stato invece additato al pubblico ludibrio per il solo fatto di averle sollevate.
Il fanatismo è sempre deplorevole. Tuttavia, quando si tratta di questioni di fede, o che riguardano entità non quantificabili, anche se deplorevole è forse inevitabile. Ma il fanatismo sciocco di quanti credevano di dimostrare di essere più realisti del re, tacciando di antieuropeismo chi li invitava a riflettere è soltanto grottesco. Se avessero un minimo di pudore, dovrebbero riconoscere di essere stati nel torto sia nel merito sia, soprattutto, nel metodo. Ma sarebbe, ovviamente, ingenuo sperarlo. Possiamo solo consolarci con le immortali parole del cardinale Suenens: «Chi accende una luce al buio si attenda le zanzare»!