di GILBERTO ONETO
Il video con il prefetto (anzi, il “signor prefetto”) di Napoli Andrea De Martino (nella foto col ministro Cancellieri) che rimprovera il prete anti-camorra Maurizio Patricello di aver chiamato solo “signora” e non “signora prefetto”, il prefetto di Caserta ha fatto il giro della rete. (GUARDA QUI)
Quasi unanime è stato il coro di “sdegno e indignazione” per il tono e per la sostanza dello sbotto, e per l’inconsistenza dell’oggetto del cazzietone; qualcuno l’ha buttata sull’accusa di maschilismo, altri di ducismo di periferia, altri ancora hanno collegato il nervosismo delle “istituzioni” con il contenuto ambientalista dell’intervento del prete. Non è mancato neppure chi ha doverosamente sottolineato il vile attentato alla sintassi del “signor prefetto” che, infierendo sul sacerdote, se ne è uscito con un sublime: «Se io la chiamerei signore, lei come reagirebbe?»
Vista la funzione di questo nostro giornale, è però opportuno sottolineare un altro aspetto della pantomima che è sfuggito a troppi osservatori in buona fede e che è stato scopato sotto il tappeto dagli altri. Le scenetta è stata la perfetta rappresentazione dell’identità italiana oltre che dell’arroganza del potere dello Stato italiano. Nella sala della riunione c’erano decine di facce di funzionari, tutti profumatamente pagati dai contribuenti, tutta gente che forse avrebbe dovuto essere altrove a guadagnarsi lo stipendio. Per ognuno di loro nel cortile se ne stava in attesa un autista a spolverare il parabrezza, e non si sa quanti agenti, poliziotti, segretari, portaborse, inservienti e palafrenieri, tutti sempre e scrupolosamente a carico dei cittadini tartassati. Quanto sia costata quella giornata di raduno di gessatini, grisaglie, cravatte e sobri tailleurini è difficile da calcolare: facciamo per difetto diecimila Euro, tre quarti dei quali “raccolti” in Padania. Nessuno di loro aveva certo fretta di tornare in bottega o in officina per “non perdere la giornata”.
É stata una normale manifestazione di italianismo autoritario, la sublimazione di quel “lei non sa chi sono io” (declinato per l’occasione in “lei non sa chi è Lei”, nel senso della sciura prefetto) che dovrebbe essere il primo articolo della patriottica Costituzione, che dovrebbe essere scritto all’ingresso di ogni ufficio pubblico, caserma e – ovviamente – prefettura. L’Italia vive di questo e su questo, dal “Signor bidello”, al “Superiore” (dato ai secondini), al “Signor Tenente” (non “Signor sergente”: vietato dal Regolamento), su, su, fino all’Onorevole (roba da mandarini e da mafiosi), fino all’Eccellenza (titolo proibito dal fascismo ma subito riesumato): la sala del fattaccio era stipata di Eccellenze e c’è quasi da ammirare il contegno democratico e minimalista del “signor prefetto” per non avere preteso che si usasse proprio quell’italianissimo titolo: «Lei come reagirebbe se io non la chiamerei Eccellenza?» Anzi, tanto per essere ancora più patriottici: «Voi come reagireste, se Noi non Vi chiameremmo Eccellenza?» Sciopa!
Eppure questa è l’Italia, questo è il solo modo per essere italiani, per riconoscere l’esistenza dell’identità italiana, che non a caso Miglio chiamava “finzione verbale”. L’Italia vive di questo e sopravvive solo grazie a questo. É costruita su orpelli, titoli, invenzioni, catafalchi, formalismi e codicilli; sta in piedi solo grazie all’involucro formale che si è cucita addosso: l’abito non serve a completare o coprire la sostanza, l’abito “è” la sostanza e la tiene in piedi.
Non è un caso che la sola voce stonata nel coro di indignata riprovazione per il tono del “signor prefetto Eccellenza” De Martino sia stata quella di Mattias Mainiero, editorialista di Libero, campano e nazionalista, che – in risposta a una lettera di un lettore – ha dato una interpretazione impeccabile e intelligente del fattaccio dal punto di vista di chi sostiene la sopravvivenza dell’intero marchingegno tricolore, spiegando come disconoscendo l’esatta titolazione si disconosca il valore dell’istituzione rappresentata. Dice insomma il Mainiero (avercene avversari così onesti!) che non si deve correre il rischio di rivelare che il re è nudo, altrimenti crolla tutto l’italico ambaradan. Naturalmente lui non userebbe mai queste parole o questa metafora che sono solo il frutto perverso dei nostri deliri indipendentisti. In ogni caso la morale è: sotto il tricolore niente! Neanche la sintassi.