2 maggio 1945, liberata Milano. E la Lombardia. Milano 2017, città rioccupata

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di ROMANO BRACALINI –  Il 2 maggio 1945, liberata Milano e la Lombardia, L’Italia del Popolo, quotidiano del partito d’Azione, titolava su nove colonne: «Il Nord reclama un’Italia senza monarchia, senza Bonomi, senza in-dustriali monopolisti, senza grandi agrari, un’Italia in cui il popolo si governi da sé…». Caduta nell’ignominia l’Italietta in orbace con le sue grottesche vanterie imperiali, la politica si riappropriava dei grandi temi politico- isti-tuzionali che la parentesi fascista aveva de-gradato a beghe di cortile e a cicaleccio “antipatriottico”. I risultati ci obbligavano a guardare in faccia la realtà. La vantata unità aveva prodotto una falsa concordia e una scarsa omogeneità di sentimenti e di abitudini; e dopo la tragedia della dittatura e della guerra tornavano a prevalere gli interessi particolari, i vizi di forma che la lunga e caotica convivenza non aveva cancellato. Le vicende storiche avevano accentuato il divario. Il voto istituzionale del 1946 spezzò il Paese in due, come in fondo era sempre stato. Il nord repubblicano e il Sud monarchico. Si comprese in quella scelta fondamentale che il Nord dinamico e moderno e il Sud sonnacchioso e immobile non avrebbero mai concorso a un unico disegno con-diviso. C’era una barriera storica, culturale e morale che impediva al paese di saldarsi nelle sue entità più estreme.
«Due Italie moralmente diverse ed economicamente diseguali», dirà lucidamente Giustino Fortunato, testimone severo e disincantato dell’”aborto” unitario. Non erano pochi gli uomini di alta levatura e moralità che avevano espresso il loro ragionato pessimismo e credevano, con Carlo Cattaneo, che la forma federale – o l’autonomia delle regioni (non era la stessa cosa, ma sarebbe già andata bene così) – , fosse la sola che convenisse al Paese.

Ma allora si ricercò quello che più conveniva e non quello che sembrava più adatto. Decidevano le élite non il popolo. Nel Gattopardo il principe Salina dice al suo ospite piemontese: «Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono». È una frase storica che coglie uno stato d’animo di scetticismo e una predisposizione costante all’inerzia e alla narcosi. Una frase che può oggi riferirsi all’Italia intera dal Po in giù. Ecco perché un secolo e mezzo di unità fittizia non sono bastati a comporre lo storico dissidio. Ecco perché sessant’anni fa un partito laico, progressista, repubblicano, gobettiano, “nordista” nello spirito e nello stile, ma non “secessionista”, come il partito d’Azione, prendeva atto dell’incompatibilità di
fondo tra le due Italie e chiedeva l’autogoverno ispirato ai valori culturali e liberali del Nord.
Non si chiedeva la rottura del patto nazionale. Tuttavia era logico attendersi che la parte meno sviluppata del paese si conformasse a quella più evoluta e moderna, in modo che anche il Sud ne traesse vantaggio e fosse
stimolato a migliorare. Si pretese invece il processo contrario. L’Italia era sempre stata tante cose diverse e mai una era stata uguale all’altra. I mediocri vi vedevano un difetto, gli avveduti una ricchezza e un vanto. Nulla che impedisse l’unità nella diversità, purché non si volesse l’unità a scapito delle diversità, come poi avvenne. Furono poi gli stili e i comportamenti del Sud a prevalere in un’Italia fatta unicamente dalle avanguardie elitarie del Nord. Fondamentalmente l’Italia restava divisa in due realtà diverse e incon-ciliabili che il voto politico e il voto referendario hanno messo in drammatica evidenza.

A fronte di un’Italia progredita e liberale, necessariamente ristretta nel suo patrimonio di valori esclusivi, c’è un’Italia vecchia, immobile, dirigista, preda di ricatti ideologici e di clientele borboniche che dalle estreme propaggini meridionali e insulari estende la linea della palma e del caffè fino alla valle del Po, ma senza travalicarla. Oggi, mutati i tempi ma non le condizioni, è tempo di rivendicare la medesima scelta di autogoverno, chiederla, pretenderla, come un “diritto delle genti”, un diritto riconosciuto già nel Seicento, se non si vuole che la “questione settentrionale”, di cui solo ora ci si accorge, diventi un elemento di perenne instabilità e di crisi istituzionale. Torna d’attualità il pensiero di Carlo Cattaneo che in una futura federazione di popoli italiani assegnava al Lombardo-Veneto un ruolo centrale di motore e di guida.

Non escludeva che altre regioni del Centro-Nord potessero aggregarsi col tempo a questa federazione ma al momento la sua Italia finiva al Po (dove si è fermato il sì dell’Italia che vuol cambiare e non può perché la vecchia Italia dal Po
in giù non lo vuole). Cattaneo continua a indicarci la strada. Ma le modalità di lotta sono diverse. Restano le medesime cause d’allora, a riprova che il paese non cambia e semmai peggiora. Una diversa moralità ci rende incompatibili, qui la libertà ha sempre avuto un senso, ma resterebbe una parola vuota se non marcasse la differenza tra il suddito e il cittadino.

La differenza odierna è tutta qui. Cattaneo aveva fatto proprio il motto di Machiavelli: «Per conservare la libertà il popolo deve tenerci le mani sopra». Due Italie moramente diverse, diceva Giustino Fortunato. Un secolo e mezzo di unità italiana fatta da Vittorio Emanuele “re per la grazia di Dio e per la disgrazia dei popoli”, come recitava un irriverente motivetto, non sono bastati a stendere il manto dell’uniformità. La Lombardia e il Veneto, le più restie al progetto di “normalizzazione dei Savoia”, educate al riformismo teresiano, al buon governo austriaco, le più ricche e progredite, continuano a rappresentare un’anomalia nell’angusto panorama nazionale, in cui regioni arretrate e umiliate del Sud, come la Calabria e la Sardegna, continuano a preferire una condizione di emarginazione e di servitù.

Due strade si sono mostrate impraticabili e forse dan-nose: prima la secessione e poi il federalismo che sembrava la forma più ragionevole per evitare soluzioni traumatiche. Ma il paese ha solo fatto finta di volerlo per
sventare una più grave minaccia. Alla prova dei fatti ha fatto la vecchia scelta di conservazione e di sudditanza al vecchio potere oligarchico. Tre quarti del paese non lo vuole perché rifiuta le responsabilità politiche e civili implicite in
ogni società liberale matura L’Italia non si scrolla di dosso uno storico complesso d’inferiorità, ed è incapace di uscire di tutela.
Pur con questi impedimenti, la storia non si ferma.
Lo storico britannico Christopher Harvie, docente all’università tedesca di Tubinga, autore del libro:The Rise of Regional Europe, (La Nascita dell’Europa regionale), che ho intervistato qualche anno fa a Londra, preconizzava la fine
dell’Italia come stato nazione nel giro di vent’anni. Anche le antiche denominazioni di Francia, Germania, Gran Bre-tagna, Spagna avranno meno senso, superate dalle nuove realtà locali, e sulle ceneri degli stati nazionali ottocenteschi
sorgeranno piccole e vigorose comunità senza confini in un’Europa civica e federata che vedrà il rifiorire di città-stato come Firenze, Amsterdam, Amburgo nel Rinascimento.

Forse il sogno è prematuro ma la strada è quella. Il Belgio ha preservato l’unità nazionale diventando uno stato federale, con due stati autonomi, le Fiandre e la Vallonia, e uno statuto speciale per Bruxelles. La Spagna una trentina d’anni fa
era una dittatura; oggi è il paese più autonomista d’Europa e la Catalogna ha un proprio statuto di autogoverno, con propria lingua e bandiera. Barcellona non contesta il ruolo centrale di Madrid. I tempi stanno maturando anche in
Italia. Il Nord, col nucleo forte del Lombardo-Veneto, deve intraprendere una lotta legale, costituzionale per giungere all’autonomia e all’autogoverno. La strada è lunga ma non c’è che quella. Il Nord ha bisogno di una rappresentanza politica forte e ampia capace di trasformare il sogno tante volte accarezzato in autogoverno di popolo. Una grande partito del Nord, fatto dalla Lega ma non solo dalla Lega. Una specie di partito catalano o di partito nazionale scozzese. La Baviera, il più grande Land tedesco, è uno stato nello Stato e Berlino non vi vede alcun pericolo.

I tempi e le circostanze si incariche-ranno di eleggere i popoli europei, nella prospettiva del declino inevi-tabile delle nazioni artificiali, a protagonisti esclusivi del loro destino. La storia ricomincia.

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