L’Italia paese di baldracche….

di ROMANO BRACALINIitalia contro italia – “L’Italia è di chi se la piglia”, dice Francesco Guicciardini. Per tanti versi l’Italia d’oggi assomiglia a quella che nel Cinquecento era nota come la baldracca d’Europa percorsa da eserciti stranieri che vi accam-pavano diritto di conquista e di bottino. Tre secoli di schiavitù lasciano il segno. «La giustizia senza la forza è impotente», dice Pascal. «La forza senza giustizia è tirannia».
La retorica ha rimediato alle manchevo-lezze del carattere. Se i poeti civili esaltavano il Paese baciato dal destino e dalla fortuna in cui più tenace cresceva la “pianta uomo”, senza che se ne vedessero i mirabili effetti, Corrado Alvaro, più
prosaicamente, annotava che «la disperazione più grave che possa impadronir-si di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile».
L’esempio più prossimo lo vedeva nella sua Calabria. Col tempo la sola unità compiuta è stata quella dell’illegalità diffusa. S’è affermato il concetto, puramente barbarico, che la difesa degli interessi di casta sia più efficace affidarla alla
prepotenza piuttosto che al diritto, all’arbitrio piuttosto che alla mediazione. Gli esempi di questi giorni sono calzanti. I metalmeccanici scendono in sciopero per il rinnovo del contratto di lavoro. Manifestano il loro sacrosanto diritto e poi spaccano le vetrine e occupano le autostrade. Avranno le loro ragioni ma il cittadino ignaro cosa c’entra? Nella psicologia antisociale e cor-porativa italiana, c’entra.

La libertà di sciopero non prevede la limitazione della libertà dei cittadini. Quando si permette l’arbitrio lo stato di diritto è già un’espressione vuota, una vacua enunciazione di principio. Vogliamo proseguire? Siamo ancora a metà del guado col tormentone dei falsi rifugiati africani espulsi dal Canton Ticino, accampati nei giardinetti di piazza Repubblica, proprio davanti alle finestre dell’hotel Savoia, quando si dice il panorama! «Il gelo non ci fa paura», gridavano stoicamente
all’assessore allora ai servizi sociali, Tiziana Maiolo, che aveva tentato di convincerli ad accettare le condizioni non crudeli offerte dal Comune. Tutte le soluzioni si erano finora rivelate provvisorie. Del loro passaggio nel ricovero di via Ortles restava commendevole traccia nei cessi ridotti a cessi e nelle tapparelle delle finestre rotte. Volevano una casa con la televisione a colori. Credevano di averne diritto e che ne avessero, in spregio a ogni convenzione civile, glielo facevano credere per tornaconto politico i buoni Samaritani di Rifondazione, che ne spalleggiavano le pretese, e i No global dei Centri sociali, che con gli africani condividevano l’illegalità dei principi, il disprezzo dei diritti e la medesima frenetica passione per il lavoro. «Sono dei fannulloni», diceva la Maiolo. Ulteriori spiegazioni sarebbero in effetti superflue. Gli africani, benché spinti da qualche urgenza, dormivano fino a mezzogiorno, nel credo comune diffuso nei bassi meridiani del pianeta che non valga affliggersi e che il destino rimedierà. Il tozzo di pane della leggenda biblica era qui invocato come metafora di vita, e se si faceva mente locale sul fatto che gli africani in parola provenissero dalle lande più miserabili dell’Africa, si comprende che tutto ciò che essi riuscissero a spuntare era tutto di guadagnato.
Aggiungeva la Maiolo che sarebbe stato fatto un ultimo tentativo e poi gli africani sarebbero stati considerati dei “clochard”. La parola ferì la sensibilità politica di  Dario Fo che rimbeccò la Maiolo. «La Maiolo usa disprezzo per i clochard, che Hitler bruciava nei campi di sterminio». Fo non aveva disprezzo di sé, che nel 1944-45 combatteva nelle file dell’esercito nazifascista, e i clochard avevano ben poco da sperare da lui.
Fai finta di dimenticare, accusa gli altri dei tuoi medesimi crimini, è l’imperativo dei voltagabbana italiani.
È così che il camerata Fo venne adottato senza rossori dall’estrema sinistra comunista e da Rifondazione. Poveracci! O non conoscevano la storia o dovevano trovarci “amichevoli” assonanze.
Gli africani volevano andare a Ginevra per appellarsi all’Onu passando per il Canton Ticino vennero rispediti in Italia, questa specie di gigantesca sala d’aspetto di tutti i miserabili della Terra. Il buon senso comune chiedeva di rimandarli a casa loro senza indugio. Un gesto di forza farebbe troppo onore a un Paese senza cognizione di nazione e di decoro. In un qualsiasi altro Paese civile la questione sarebbe già stata risolta. Da noi v’è il partito della pietà coalizzato a impedirlo, residuati di comunismo piagnone e certo cattolicesimo missionario.
L’Italia dello sfascio morale, antica piaga del Paese di Pulcinella, si rivela in ogni aspetto della vita pubblica. Può stupire che nella zona vesuviana, in provincia di Napoli, la caserma dei Carabinieri sia abusiva? Può meravigliare che il tribunale di Bari sia stato costruito senza licenza edilizia e che la sentenza di condanna sia stata emessa dal medesimo tribunale che siede in un edificio abusivo? L’Italia è nata da un equivoco istituzionale di cui le fonti storiche hanno finito per prendere atto, ma senza farne un dramma. Se ne accorsero i garibaldini reduci dalla spedizione dei Mille nel 1860. Conquistata Reggio Calabria cerca-rono la strada delle Calabrie che le carte segnavano senza possibilità di equivoco.
Su quella direttrice avrebbe marciato l’esercito “meridionale” diretto a Napoli. Fu avviata l’avanguardia ma la strada non venne trovata perché non esisteva. Eppure negli archivi c’erano non solo i piani di costruzione della strada, ma le
perizie per l’appalto dei lavori, i contratti di appalto, i verbali delle aggiudicazioni, i pagamenti rateali eseguiti dallo Stato borbonico, e perfino i collaudi effettuati dagli ingegneri. C’era tutto, tranne la strada. Era il miglior epitaffio dell’Italia unita che stava per nascere ed era già morta, però era divertente.

(da Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo)

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